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Voglio anch’io un motivatore. Mi dovrà convincere che posso arrivare dove voglio. Magari proverò a chiedergli di utilizzare le sue competenze per motivarmi ad alzarmi all’alba dopo una giornata passata a lavorare fino a notte inoltrata. Oppure a convincermi che, prima o poi, anch’io ce la farò a diventare ricca e famosa che, oggi, sembra l’aspirazione di tutti. Ripensandoci, però, del motivatore non penso di avere bisogno. Sono già dotata di abbastanza senso di responsabilità per rispettare le scadenze del mio lavoro e conciliarle con le esigenze familiari. E’ vero forse metto un po’ da parte quelle personali, ma questo non è mai stato un problema. E, contrariamente alle aspirazioni comuni, non voglio diventare ricca e famosa. Così, piuttosto, se avessi bisogno mi rivolgerei semplicemente a un psicologo che, più che motivarmi, dovrebbe aiutarmi a capire chi sono e cosa voglio.
Il motivatore, in questo momento, va alla grande nello sport. Lì sì che serve, secondo il pensiero generale: la pressione è alta e pure le richieste di allenatori, sponsor, entourage. Quasi come se l’atleta fosse in gara solo con se stesso, piuttosto che con altri atleti che ci mettono il medesimo impegno e la stessa abnegazione. Anche nelle aziende multinazionali e non, abituate a lavorare per obiettivi, è d’uso l’allenamento della mente per il miglioramento delle performance.
Così i motivatori proliferano. Uno di questi, al secolo Daniele Popolizio (già mental coach, che fa più figo, della record woman mondiale dei 200 e dei 400 stile libero, Federica Pellegrini, e della pattinatrice sul ghiaccio,Carolina Kostner, sesta ai Mondiali di Torino dopo essere finita con le terga sul ghiaccio alle Olimpiadi di Vancouver) lo ha assoldato, qualche settimana fa , il presidente della Lazio, Claudio Lotito, spedendolo nel ritiro dove i biancocelesti erano, a loro volta, stati spediti per ritrovare compattezza e tornare alla vittoria. Il ‘motivatore’, in quel caso, è stato respinto da coloro che avrebbe dovuto aiutare.
Secondo lo psicologo Fabio Cola, consulente del Parma dei tempi di Cesare Prandelli: «I calciatori vengono cresciuti solo in funzione dei risultati. Spesso non vanno a scuola, hanno poche relazioni sociali significative. La loro autostima è affidata a un solo parametro: il successo sul campo. Se falliscono vanno in tilt».
A preoccupare in questi meccanismi virtuosi (?), che si tratti di calciatori o altri sportivi, è proprio l’altra faccia della medaglia rappresentata dalla sensazione di fallimento che può attanagliare chi non riesce a vincere nonostante il motivatore. Perché è buona norma ricordare che, mentre nella vita tutti possono vincere nelle piccole e nelle grandi cose a patto di non spostare troppo in là l’obiettivo e di considerare nella giusta luce l’insuccesso, nelle competizioni sportive a vincere è uno e uno soltanto.
Ben vengano, quindi, motivatori e ancora di più psicologi sportivi (nel calcio giovanile la presenza di uno psicologo nello staff societario è obbligatoria) se il loro ruolo è quello di aiutare a crescere, a concentrarsi, a non soccombere alla paura di vincere, tecnicamente ‘nikefobia’ dalla parola greca nike che significa vittoria. Ma gli stessi dovrebbero, soprattutto, trasmettere un concetto molto più importante: l’umanità dei sentimenti, la non perfezione della razza umana, il saper perdere e la forza di rialzarsi e continuare. Perché, come ha riassunto un’altra campionessa del nuoto, Alessia Filippi (seguita anch’essa da Popolizio), inserendosi nel dibattito di questi giorni: «Va bene il motivatore ma prima devono esserci le qualità».
(pubblicato su Eventi di domenica 28 marzo, allegato trimestrale del quotidiano La Sicilia nella sezione 'punti di vista')
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