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Ancora flessibilità? considerazioni sull’articolo di un collega

Creato il 23 luglio 2013 da Propostalavoro @propostalavoro

ANCORA FLESSIBILITÀ? CONSIDERAZIONI SULLARTICOLO DI UN COLLEGAL'articolo di Danilo, pubblicato su Pro-post@ Lavoro qualche giorno fa ha fatto luce su due tematiche notevoli, flessibilità e formazione, che hanno interessato i miei studi sul diritto e sull'economia del lavoro in profondità.

Danilo cita un intervento del ministro Giovannini per discutere di flessibilità e di formazione continua. Questi due aspetti, di cui ho scritto di recente, sono in generale collegati tra loro da relazioni sistematiche e, nel caso del mercato del lavoro italiano, peculiari.

Anzitutto, è possibile conciliare flessibilità e formazione continua?

Studi economici mostrano che i datori di lavoro offrono formazione aziendale specifica (cioè, quella spendibile solo all'interno dell'azienda e che quindi non migliora la posizione del lavoratore sul mercato) solo ai dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato, mentre non si fanno carico di formazione generica (quella spendibile sul mercato intero, teorica e più scolastica). Questi studi possono essere approfonditi consultando Le riforme a costo zero, di Tito Boeri e Giuseppe Garibaldi.

I lavoratori precari, tuttavia, non restano fuori dal circuito della formazione. A differenza dei colleghi a tempo indeterminato, gli atipici fruiscono di formazione autofinanziata, fuori dai circuiti aziendali. Studi condotti all'estero, Francia e Svezia, forniscono un resoconto negativo di questa tendenza: l'esito più tipico della frequentazione di corsi di formazione autofinanziati non è il collocamento lavorativo, ma l'iscrizione ad un altro corso. A questo fenomeno viene dato il nome di training trap, vale a dire "trappola della formazione". E' una minaccia di non secondaria importanza.

I fenomeni sopra descritti vengono messi in relazione, come anche Danilo ha fatto, con un altro aspetto del mercato del lavoro: la sovra/sotto qualificazione. Per usare un termine anglosassone, il mismatch tra la posizione occupata da un lavoratore e il suo bagaglio di competenze (o anche il titolo di studio). Di questo aspetto però esistono da un lato statistiche fumose, basate sull'impressione del lavoratore di ricoprire una posizione più o meno adeguata rispetto al suo curriculum, dall'altro spiegazioni divergenti (sono più competenti lavoratori freschi di formazione, ma inesperti, o esperti privi di formazione ed aggiornamento?), per cui rimando l'approfondimento ad articoli successivi.

Tornando al tema principale, flessibilità e formazione hanno senso solo se la formazione diventa la regola e la flessibilità l'eccezione. Mi spiego e aggiungo un presupposto. In un mercato del lavoro dinamico ed innovativo, legislativamente strutturato per puntare a innovazione e crescita, la domanda di lavoratori qualificati è alta e la concorrenza serrata. In questo contesto la flessibilità è uno strumento del lavoratore che punta a vincoli contrattuali deboli per poter fare esperienza nell'impresa A prima di passare all'impresa B con un contratto più vantaggioso. Perciò è l'impresa stessa a cercare di vincolare il lavoratore. In Italia questo mercato esiste solo per pochi, mi vengono in mente i calciatori, ad esempio, mentre tipicamente avviene l'opposto. Il mercato è legislativamente e socialmente improntato al lassismo, con una forte caratterizzazione nel settore pubblico, rigidissimo, e con struttura duale, dove le posizioni chiave sono occupate da personale di lunga esperienza che, per contratto, non può temere concorrenza dal basso, dove, invece, precari ed atipici senza prospettive di carriera sono costretti ad aggiornamenti continui per non essere tagliati fuori. Questo è infatti il sostrato che si è innestato sul substrato economico (per dirla à la Marx) di un tessuto produttivo asfittico e riluttante all'innovazione, che l'establishment politico clientelare ha pochissimo interesse a modificare.

In parole povere, la flessibilità buona esiste. Non in Italia, non adesso.

Affinché la situazione cambi, le riforme vanno orchestrate dalle fondamenta: la riforma dell'economia deve precedere quella del lavoro, il mercato del lavoro non può essere "europeo", se la produzione è "cinese". Reddito di cittadinanza (irrazionale) e reddito minimo garantito (ma a livello orario e non mensile) sono soluzioni palliative e alla lunga controproducenti, mentre la formazione ha ragione di essere il motore della riforma, ma una formazione che sia cerniera tra studio teorico e applicazione pratica, che sia vicinissima alle università e alle imprese e consenta meritocraticamente l'accesso alle posizioni appropriate.

Finora, e le occasioni elettorali per dimostrarlo non sono mancate, l'Italia ha però preferito conservatorismo o protesta all'innovazione. Stupisce come ora, che se ne avverte un disperato bisogno, ministri vecchi e nuovi lo stiano ancora ignorando.


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