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Ancora, solo, un Italiano?

Creato il 09 marzo 2011 da Albino

Una delle prime cose che ho notato da quando vivo qui a Tokyo e’ che in Giappone esistono tre tipi di italiani: quelli che sono arrivati da poco e non hanno capito niente, quelli che sono arrivati da tanto e ne hanno le palle piene, e poi io.

Direte: eccolo che si tira fuori dal mucchio come al solito. Vuol fare quello che se la tira perche’ mastica l’inglese (come la Minetti, che e’ madrelingua; anzi no, perche’ io mastico, lei ingoia) e quindi non esce con gli italiani o coi giapponesi ma preferisce stare al pub a scolarsi litri di birra con i suoi amici anglosassoni. E poi magari l’albino vuol pure tirare su un pippone sull’italiano tipico che scende dall’aereo pieno di stereotipi, di oh ma quanto e’ fiko e tecnologgico qui!, dell’italiano che arriva da queste parti magari perche’ un po’ otaku, un po’ nerd, un po’ laureato in giapponese. Dell’italiano pizza manga e mandolino che attracca a questi lidi attirato dalle leggende di giappine che te la danno come se neanche fosse sua, ma solo perche’ sei straniero – latino – italiano (l’ordine non e’ causale).

Dell’italiano che pero’ dopo un paio d’anni capisce come funziona la situazione, si rende conto che non e’ tutto oro quel che luccica, che nessun paese al mondo e’ esente da difetti, che la gentilezza e’ spesso distaccata freddezza, che la mancanza di flessibilita’ alla lungo pesa come un macigno, che solo perche’ non se ne parla non vuol dire che un paese sia meno corrotto di un altro, e cosi’ via, passando per un razzismo a volte intollerabile e qualche pesante lacuna in fatto di diritti umani, che non vedi fino al giorno in cui vieni a scoprire che per esempio se hai un figlio con una giapponese non puoi dare il tuo cognome a tuo figlio, che da sposato sei equiparato a una specie di animale domestico di tua moglie, che l’omicidio di uno straniero da queste parti non si sa capisce bene se sia considerato un reato o no, (ma lo stupro di una straniera no, di sicuro non lo e’), che se ti arrestano ti accorgi che non hai diritto a un avvocato, eccetera.

O dell’italiano che le prova tutte per integrarsi in questa societa’ apparentemente impermeabile allo straniero, perche’ la scelta e’ “o qui, o mi tocca tornare a casa”. E una volta succhiato il dolce frutto della liberta’ e le nottate a Roppongi, chi ce la fa a tornare in Italia a mille euro al mese, a barcamenarsi tra bolli assicurazioni affitti e una pizza al mese perche’ senno’ si va in rosso?

Ancora, solo, un Italiano?

E invece no: oggi non parlero’ di questo. Oggi non voglio parlare ne’ del primo gruppo ne’ del secondo: oggi parlo del terzo, cioe’ di me. Perche’ io, lo sapete, in effetti sono un po’ atipico. A differenza della maggior parte degli italiani di qui, non frequento quasi per nulla (a parte sporadiche pizze) i miei compatrioti, ne’ ho molti amici giapponesi monolingua. Al contrario ho tanti amici che parlano inglese, e che di regola l’Italia a momenti non sanno nemmeno dove si trovi. Non esco con giappine italian-freak (anzi, le evito come la peste, e un giorno vi raccontero’ perche’), e via dicendo. A me, diciamolo, a incontrarmi per caso non si direbbe che sono italiano. Sara’ perche’ non vengo direttamente dall’Italia, e sono giunto qui in Giappone non (solo) per scelta del paese ma anche per scelta di carriera, espatriato da businessman, senza aggiungere poi molto al mio stipendio ma solo per il gusto dell’esperienza. Io, a differenza dell’italiano medio, se volessi nel giro di un mese o due potrei lasciare il Giappone, andare fare l’ingegnere ferroviario praticamente ovunque nel continente americano, in Asia, e naturalmente in Europa o Australia.

Direte: e allora? Sono arrivato in Giappone dopo un’esperienza di vita in Australia: so what? Mettiamola cosi’: siccome sono italiano ma sono arrivato qui da residente australiano, il mio termine di paragone non e’ l’Italia, come per i miei compatrioti. E neppure l’Australia, perche’ io comunque non sono australiano. E’, banalmente, una combinazione delle due.

E’ una cosa cui stavo pensando prima. Esempio stupido: l’italiano in Giappone pensa che qui le poste funzionino benissimo; io invece non faccio che incazzarmi e maledire le poste giappe, perche’ inconsciamente faccio il confronto con quelle aussie che, diciamolo, sono tutta un’altra cosa. Poi, che altro. L’italiano mediamente sospira di malinconia quando ripensa al cibo della terra natìa; io invece ricordo i tempi dell’embargo australiano nei confronti di latticini e insaccati; ho ancora vivi in me il gusto di quella schifosissima maionese acida che usano in downunder, o dell’aglio ultra-abusato nei ristoranti pseudo-italiani, del cibo insipido coperto da salse, del chicken parmigiana, eccetera. Ho gli incubi a ripensare alla pizza con l’ananas. E mi lecco le dita, sissignori, nei ristoranti italiani qui in Giappone. Proprio come fanno gli aussie, cui magari manca (come a me) una buona meat pie di quelle fatte bene, o un T-bone da mezzo chilo al barbie, o i nachos con tonnellate di formaggio sopra (qui in Giappone li ordini e ti arrivano due nachos e una scoreggina di formaggio sopra. Prh.); ciononostante gli aussie si rendono conto che culinariamente parlando qui in nipponia siamo in un altro pianeta rispetto a casa loro. Ovviamente.

Ancora, solo, un Italiano?

Ma non e’ di certo tutto qui. C’e’ da parlare anche del livello di comprensione che ho nei confronti degli anglosassoni, con cui bene o male ho condiviso quasi un lustro di battute e lavoro e weekend e uscite e corsi di sub eccetera, e poi serie e programmi TV, rugby al pub e festa di St. Patrick, e via dicendo con gli stili e i modi di comportarsi che potete bene immaginare. Ho vissuto e convissuto con gente da cui ho appreso modi di pensare, di interfacciarsi, di relazionarsi. Quell’apertura mentale, quella logica del tutto bianco o tutto nero, quel sarcasmo fulminante, quell’essere naturalmente easy going di Americani, inglesi, aussie, kiwi: non importa, e’ la radice comune quella che conta. E’ confrontare italiani o spagnoli: siamo diversi, ma il modo di pensare spesso coincide.

Per questo, forse, se volete trovarmi a Tokyo e’ meglio che evitiate le tavolate in pizzeria degli italiani, o le serate di gruppo all’izakaya dove ci si mette d’accordo due settimane prima per essere sicuri di organizzare tutto nel modo giusto, perche’ se ci si trova e basta poi si finisce a star tre ore in strada a decidere dove andare perche’ bisogna far contenti tutti. Dove si parte in quattro e si finisce in trentacinque perche’ tutti portano “l’amico italiano, sai e’ appena arrivato” o “la mia amica giapponese che ha vissuto tre anni in Italia”. No: e’ piu’ facile che io sia in un ristorantino intimo per una cenetta a due, o se in gruppo mi potete trovare al pub, circondato da gente di tutti i tipi, di tutte le eta’, di tutte le razze. Where shall we go tonite? Wanna catch up in Shinjuku? Ok, give u a ring when I get there. K.

Perche’ io in fondo ormai sono diventato cosi’. Non mi si puo’ piu’ chiedere di star tre ore a decidere dove andare. Non la reggo una serata a parlar di politica. Non provo piu’ piacere a lamentarmi per il gusto di.

Per questo, pensavo. Pur restando sempre me stesso, e pur avendo salde le mie radici e andandone fiero, forse…. beh, forse ho smesso di essere semplicemente un italiano. Fossi in Australia, adesso, sarei “un italiano che ha vissuto in Giappone per due anni”. Ma in Giappone no, non credo mi si possa definire “un italiano che ha vissuto per quattro anni in Australia”. E cosi’ penso in nessun’altra parte del mondo.

Perche’ credo di essere diventato, un po’ piu’ di quanto io stesso volessi ammettere un anno fa, in fondo, ormai, un italo-australiano.

Ancora, solo, un Italiano?



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