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Ancora su La rinascita di Shen Tai di Guy Gavriel Kay

Creato il 02 aprile 2012 da Martinaframmartino

Ancora su La rinascita di Shen Tai di Guy Gavriel KayA volte mi faccio trasportare dall’entusiasmo. Qualche giorni fa Jacopo mi ha fatto notare che, parlando di La rinascita di Shen Tai di Guy Gavriel Kay, ho trasmesso tutta la mia passione per quest’autore, ma non ho fatto capire di cosa parla il libro. Parole tante, ma vale la pena leggere il romanzo?

Innanzitutto è disponibile il primo capitolo, leggibile a questo link: http://www.fantasymagazine.it/anteprime/16596/la-rinascita-di-shen-tai/.

Ma, nonostante si tratti di ben 30 pagine, dalla 19 alla 48 (più la poesia di pagina 15), del romanzo si capisce ben poco. In primo luogo il modo di strutturare la storia da parte di Kay è molto particolare. Come ho già scritto, Kay non è tipo da partire in media res, perciò in queste pagine avviene ben poco. Intravediamo alcuni retroscena della vita di Tai, ma sono troppo pochi per poterlo capire davvero. Non è che ci siano segreti tenuti in modo artificiale, è solo che se una cosa non è importante in quel momento lo scrittore non ce la dice.

La conclusione di questo capitolo è esemplare del metodo di Kay: Tai e Bytsan sanno di cosa stanno parlando, si scambiano anche informazioni importanti, solo che noi, pur assistendo al dialogo, non riusciamo a capire cosa stiano combinando. E quando questo ci viene rivelato l’effetto è molto forte. A volte la rivelazione arriva sotto forma di azione, altre volte sono riflessioni a posteriori del personaggio. Certo è un modo molto particolare, e notevolmente efficace, per gestire le informazioni. Ci lascia lì, con il fiato in sospeso, e intanto ci affascina e incuriosisce con altre cose. Poi, quando siamo sufficientemente distratti, arriva la mazzata.

Perciò questo capitolo è interlocutorio, vediamo il dono ma non sappiamo cosa questo comporti.

È solo dal secondo capitolo che iniziano davvero i guai, e tutta la situazione si movimenta. C’è un mistero, e passerà parecchio prima di poter avere una risposta, ma intanto il pericolo da ipotetico diventa molto concreto e reale.

Il romanzo è autoconclusivo. In 611 pagine viene raccontata tutta una storia, cosa che nella fantasy moderna sembra quasi impossibile. Ormai siamo così abituati a trilogie, tetralogie, saghe di N libri, che i romanzi autoconclusivi sono una rarità. Ma è davvero un fantasy? Kay è considerato uno scrittore fantasy, e certo la Trilogia di Fionavar e Il paese delle due lune, con la loro magia funzionante e, almeno nel primo caso, un signore oscuro di tipo tolkieniano, elfi, nani, un drago e gli dei che interagiscono con i mortali sono opere perfettamente fantasy. Con i romanzi successivi il discorso cambia.

Questo è un lavoro romanzesco modellato intorno e attraverso la storia” ha scritto Kay nei ringraziamenti finali. Quella di Under Heaven non è la Cina, come è evidente anche dalla cartina. Martin Springett, che è un artista straordinario, ne ha realizzato una bellissima versione illustrata che potete vedere a questo link: http://www.brightweavings.com/artgallery/underheavenmap.htm.

Ma se non è fantasy, e non è un romanzo storico, cos’è che scrive Kay? Di questo, della sua fantasy storica, parlerò a breve in un articolo su FantasyMagazine. Quello che mi limito a dire per ora è che la cultura dell’impero di Kitai ricorda molto quella cinese. C’è un imperatore con la sua concubina, ci sono intrighi di corte, due personaggi potentissimi che si odiano e che farebbero di tutto per distruggere il loro avversario, anche se questo dovesse significare la distruzione del Kitai, e ci sono persone comuni che lottano per non essere schiacciate dagli eventi. Soldati, poeti, geishe, mendicanti, tutti hanno il loro suolo da svolgere sotto il cielo.

Riprendo la poesia iniziale:

Specchiandosi nel bronzo si può modificare il proprio aspetto;
specchiandosi nella Storia si può comprendere
l’ascesa e il declino di uno Stato;
specchiandosi nei buoni si può distinguere
ciò che è giusto da ciò che non lo è.
LI SHIMIN, IMPERATORE T’ANG TAIZONG

Quello che abbiamo, in questa storia, sono personaggi che fanno la Storia, a volte loro malgrado. E abbiamo la Storia che procede implacabile incurante della vita dei personaggi. Il respiro è più da romanzo storico che da fantasy. Non ci sono elfi, nani o draghi in queste pagine. Non che io ne senta la mancanza, anche nel Trono di spade di George R.R. Martin gli elementi fantasy sono quasi assenti e io ho amato fin da subito il romanzo, senza sentire la mancanza di quello che non c’era. Credo sia inutile dire non c’è questo e neppure quest’altro. Se lo scrittore ci desse quello che ci aspettiamo perderebbe la capacità di sorprenderci, e questo sarebbe molto peggio. Ma questo non è un romanzo storico, e non solo perché il Kitai non è la Cina. Un elemento fantasy c’è, anche se viene usato poco. Kay, come anche Martin, reputa che sia importante non abusare degli elementi fantastici. Chi porta avanti la storia sono i personaggi, perciò la magia si usa solo se serve davvero, altrimenti è meglio ignorarla. Qui non c’è magia e non ci sono stregoni, e io non ne sento la mancanza. Le Aes Sedai di Robert Jordan sono fondamentali per la trama della Ruota del Tempo, così come lo sono i poteri magici di Balsamon e di Nepos nella serie della Legione perduta di Harry Turtledove. Visto che qui non servono perché non aggiungerebbero nulla alla storia semplicemente non ci sono. Giusto per chiarire il dubbio di Jacopo e di tutti quelli che, come lui, si stavano chiedendo che tipo di romanzo è questo.

E, a volte, capitava che la poesia fosse in grado di suggerire nuove e pericolose idee. Gli uomini potevano essere esiliati o perfino uccisi per quello che scrivevano.” (pag. 28)

La poesia è sempre stata importante per Kay, e non solo perché lui è un poeta. La poesia, o la musica. Pensiamo al Canto di Rachel nella Trilogia di Fionavar, e alla sua importanza. Al canto di Catriana, e al modo in cui Alessan capisce che Devin è uno di loro nel Paese delle due lune. A Lisseut, e all’importanza della poesia in A Song for Arbonne. “La mia porta d’ingresso alla Cina dei T’ang si è aperta con i maestri della poesia della dinastia” ha scritto Kay nei già citati ringraziamenti. La poesia non è presente come nel Signore degli anelli, dove a volte rende il testo un po’ troppo pesante. No, qui è poetico il linguaggio, e le poche volte che sono presenti dei versi sono, oltre che belli, sempre funzionali alla trama. E conosciamo la forza della poesia, fin dalla menzione della principessa di Giada Bianca Cheng-wang.

Se la principessa non compare mai nel romanzo, a comparire sono altre donne, capaci di risplendere come gemme preziose. Concubine, cortigiane, capaci di ricoprire mille altri ruoli, le donne di Kay non sono mai figure passive, pur se costrette ad agire sotto limiti ben precisi.

Su tutto c’è “un velo di malinconia” perché, come si trova a pensare Tai nella desolazione del suo autoimposto eremitaggio, a volte la vita ci porta a “smettere di amare qualcosa che prima era fondamentale” (pag. 26). Non questo romanzo, e non questo scrittore. Non per me.

Shen Tai è il figlio del generale che ha condotto le forze dell’impero di Kitai nell’ultimo scontro contro i Tagur, vent’anni prima. Quarantamila uomini, su entrambi i fronti, hanno perso la vita in quella battaglia, sulle remote rive di un lago nascosto tra le montagne occidentali. Il Generale Shen Gao è ormai deceduto. Per onorare la memoria del padre, Tai decide di trascorrere i due anni di lutto ufficiale ritirandosi in eremitaggio sul sito della battaglia, tra gli spiriti dei defunti, sforzandosi di dare una degna sepoltura ai loro resti sparpagliati. Una mattina di primavera, però, apprende che la sua veglia non è passata inosservata: la Principessa di Giada Bianca dei Tagur gli offre in dono duecentocinquanta cavalli sardiani, come ricompensa per il suo coraggio e il suo impegno nell’onorare la memoria dei defunti. Dona a un uomo uno dei rinomati cavalli sardiani e lo ricompenserai grandemente. Concedigliene quattro o cinque, e lo eleverai al di sopra dei suoi simili, attirandogli gelosie finanche mortali. Duecentocinquanta cavalli sono un tesoro che va oltre ogni immaginazione, un dono in grado di sopraffare perfino un imperatore.

Questo è il risvolto di copertina, e il riassunto del primo capitolo. Quello che segue è il viaggio di Tai, a partire dagli eventi immediatamente successivi all’incontro con Bytsan, fino nel cuore stesso degli intrighi di Xinan. Ci sono scene d’azione e momenti di riflessione, rapporti complicati fra i personaggi, nei quali è difficile distinguere gli alleati dai rivali, una fuga lunghissima e improbabile, una guerra che potrebbe scoppiare da un momento all’altro, amicizie inaspettate e morti dolorose. C’è la magia delle parole, più forte di qualsiasi incantesimo che potrebbe esserci e invece non c’è. Ci sono vite che a un certo punto giungono a un bivio fondamentale, e smettono di essere quello che erano prima per diventare qualcos’altro. C’è una storia ricca e complessa, perché i migliori “racconti hanno molti fili, grandi e piccoli” e tutti hanno la loro importanza. E Kay è un maestro nel narrare l’intreccio delle vite degli uomini e nel realizzare straordinarie tessiture.



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