Se sognate un ritorno alla campagna e barattereste senza tante remore il vostro impiego dal nome in inglese nei servizi per un’involuzione verso la terra e i proventi che ne derivano dalla semina e la raccolta, passando per la zappatura, dovreste essere pronti a un cambiamento radicale della vostra vita soprattutto negli orari dei pasti. Io lo so perché i miei nonni paterni erano contadini, e anche quando si sono trasferiti in città, come si usava fare dopo la guerra, hanno continuato le loro abitudini pranzando a mezzodì e cenando alle sei di sera. Abitavamo tutti insieme e ricordo bene quei ritmi naturali prima che iniziassi ad andare a scuola. Oggi posso proiettarli in un’economia povera fatta dei frutti del proprio lavoro, di qualche animale nella stalla per il sostentamento del nucleo famigliare e dei cicli produttivi soggetti alla natura, alla regolarità delle sue certezze – le stagioni in primis – ma anche agli imprevisti. Grandini, incendi, siccità, piogge copiose. Nella sicurezza della vita urbana, nella finzione delle comodità messe a disposizione dal progresso come la luce elettrica sul tavolo da pranzo e un mobile tv sintonizzato sul telegiornale della sera, mantenere gli stessi ritmi imposti dal lavoro nei campi era comunque una sfida aperta all’industrializzazione. E poi si sparecchiava e con la bella stagione c’erano ancora un po’ di ore di chiaro da passare a proprio piacimento prima di coricarsi. Per me quindi il concetto di dopocena, almeno per una parte cospicua della mia adolescenza, partiva dalle sette circa in poi. Quella trasposizione di un modello non tanto superato quanto inadatto per la vita di città si è esaurita in occasione del primo scontro con la realtà dei coetanei. Avevo risposto con entusiasmo a una proposta di uscita con una ragazza, era estate e tutto era lecito anche se le prime esperienze fuori di casa si cercava di organizzarle basandosi un po’ sul sentito dire dei più grandi o copiando quello che si vedeva nelle pubblicità in televisione. Le avevo proposto di vederci dopo mangiato per un gelato, ma l’idea di incontrarci verso le sette e mezza fu motivo di ilarità. Lei, cittadina da molte generazioni, era solita cenare non prima delle venti e trenta. Avevo comunque provato a uscire di casa all’orario che ritenevo più naturale, una sorta di prova preliminare all’appuntamento vero e proprio, e avevo appurato che alle sette e mezza, in effetti, le gelaterie erano deserte. Non volevo però far pesare alla mia famiglia questa usanza che ci rendeva differenti rispetto al resto della gente di città. La sera decisiva ero uscito lo stesso dopo cena – ora contadina, ammazzando il tempo fino alle nove in giro da solo, cercando di non farmi vedere da nessuno.
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