Magazine Cultura

Andrea Leone, tre racconti inediti

Creato il 24 agosto 2012 da Viadellebelledonne

Andrea Leone, tre racconti ineditiAndrea Leone è nato a Milano. Titoli: Scena della violenza (“Poesia”, Crocetti), L’Ordine (La Vita Felice, collana Niebo, 2006, prefazione di Milo De Angelis, Premio Adonis- Premio San Pellegrino Opera Prima), Il suicidio di Holly Parker (Lampi di stampa, 2008), Stirpe (Lampi di stampa, 2009), La sposa barocca (AA.VV. Lietocolle 2010), Lezioni di crudeltà (Poiesis, 2010, Classifica Pordenone Legge- Premio Dedalus)

Tre racconti dalla raccolta inedita Centosessantotto spaventi mortali

 CELINE LAFOUGE

Nel mio incubo ricorrente, nell’incubo che ha visitato per molti anni le mie notti (Celine Lafouge, Parigi 1986- suicida a Parigi, 2005), mio nonno sta fumando la sua pipa al centro del salone, tra il camino e i divani, nella nostra casa di montagna a Montreaux. Vedo i capelli bianchi di mio nonno, il fumo che  esce dalla sua pipa. Ora entra il suo principale assistente, il braccio destro nell’azienda di famiglia, l’ingegner M***, lo conosco di vista, l’ho visto alcune volte a casa. «Proprio lei», dice mio nonno. «E’ un antico patto celtico», dice mio nonno nel sogno. «Un patto segreto, un patto sacro, è una tradizione della nostra famiglia, si perpetua dalla fine del diciottesimo secolo attraverso le generazioni, il primogenito viene sacrificato e questo assicura la straordinaria prosperità economica dell’azienda di famiglia, la nostra industria farmaceutica, la terza più importante industria farmaceutica di tutta Europa. E’ il momento di manifestare la sua fedeltà e la sua efficienza, M***, dica alla bambina che è pronta una merenda, l’intrattenimento ha inizio. Faremo come l’altra volta, ricorda M***?» dice mio nonno. L’assistente esce e mio nonno afferra una motosega, la mette in azione, si sente il rumore assordante della macchina. «Motosega elettrica», dice mio nonno, «eccola, nuova, potente, funziona a meraviglia.» A questo punto l’assistente torna in salone portando con sé una ragazzina sugli undici anni, che indossa soltanto un costume da bagno dopo un tuffo in piscina. Quella ragazzina sono io. La pelle della ragazzina bionda è ancora bagnata. Subito tre altri uomini le si avvicinano e la immobilizzano; la bambina tenta di divincolarsi, ma viene legata con delle corde. «Signori, avvicinatela», dice mio nonno rivolto a una decina di persone, che mi sono del tutto sconosciute. «Tenetela stretta», urla, mentre il pianto e le urla della ragazzina si mischiano al rumore infernale della motosega, «per prima cosa il braccio», urla mio nonno, e a questo punto fa la cosa più incredibile che io abbia mai visto, preme la lama dentata della motosega contro quel braccio, la cui pelle e la cui carne iniziano a lacerarsi, mentre la bambina urla a squarciagola, «così, ancora uno sforzo, troncato di netto», dice mio nonno. ll braccio della bambina, il mio braccio, si stacca dal corpo, cade sul pavimento. «Raccolga, prenda il braccio, M***», dice mio nonno, rivolto al suo assistente «ora ognuno deve assaggiarne un pezzetto, il nostro patto di sangue prevede esattamente questo, come l’altra volta. Non ci stiamo cibando di un cadavere ma di un braccio ancora fresco di una undicenne viva, siamo in tre e tutti e tre dovremo mangiare ognuno almeno un boccone. Faccio io le parti, carne cruda.» A questo punto spegne e mette da parte la motosega, si siedono tutti ad un tavolo, si aggiungono altre persone, in tutto sono una quindicina. A lei, M***, dice mio nonno porgendogli un pezzo, questo per lei, M***. Sono gli ingegneri e i dirigenti della sua ditta. Qui finisce il primo banchetto. E ora dopo il braccio le staccheremo una gamba, dice mio nonno alzandosi di scatto. Afferra la motosega, la accende, tornano tutti al centro del salone verso la bambina, che era svenuta e ora si è ripresa, e urla e piange come una indemoniata, il corpo mutilato e straziato, «qui, il punto è questo», urla mio nonno con grande sforzo, «netto tra l’inguine e l’osso.» Appoggia la lama elettrica alla gamba e in pochi secondi la trancia. «Fatto», urla, «ecco il secondo piatto.» Si sentono le urla strazianti della bambina, qui inizia il secondo banchetto, mio nonno ha i vestiti sporchi di sangue, un pezzo di carne della gamba gli esce dalla bocca, si asciuga il sangue con un fazzoletto, ora va a sedersi su una poltrona un po’ distante dagli altri, accende lo stereo, chiude gli occhi e emette un sospiro, si iniziano a sentire le note della Casta Diva di Bellini. Non è ancora morta, dice mio nonno guardandola dalla sua postazione, si muove ancora. Ora la stoccata finale, dice, il cuore, apriremo il petto, estrarrò il cuore della ragazzina con le mie mani e con un coltello ne farò tre pezzi, poi con martellate ben assestate le distruggeremo gli occhi, renderemo vuote le orbite, e da lì estrarremo il cervello. Quel coltello, M***, dice rivolto al suo assistente, mi passi quel coltello. Ora il martello; il rumore della motosega, poi le ultime urla della bambina, poi ancora mio nonno, questo per lei, M***, dice, M***, finiamo di mangiare, a cena terminata la daremo in pasto ai cani che tengo in villa, dice, gli animali la sbraneranno completamente, finiranno gli ultimi resti, con una soluzione chimica ci sbarazzeremo delle ossa e nessuno saprà nulla. Rimarrà per sempre il nostro segreto!

IRENE KORCZAC

 

Era  l’esame per l’ammissione ad un prestigioso concorso pianistico, il premio Chopin di Varsavia. La candidata Korczac, disse il presidente della commissione giudicatrice, il pianista Gardner. «Con che cosa si presenta?» «Sonata numero 13 opera 333 di Wolfgang Amadeus Mozart.» «Un attimo di concentrazione ed iniziai ad eseguire il brano». La prima nota, il primo movimento, un allegro in si bemolle maggiore. “Le mie mani, i miei muscoli, il mio cervello, il mio corpo chino sullo strumento” disse Irene Korczac, suicida il giorno 22 Marzo 2004. “Suonavo a memoria. Nessuno spartito. Il tempo era piuttosto veloce. Ansimavo come se stessi correndo. Guardavo la tastiera con il cuore in gola, e in effetti stavo correndo, correvo di nota in nota come per raggiungere una meta. Precipitavo nella musica, risolvevo un problema algebrico, in ipnosi, portavo a termine l’operazione matematica fatta di battute musicali. Qualche settima dopo, mentre leggevo la Frankfurter Allgemeine Zeitung, arrivai per caso alla pagina degli spettacoli, e la mia attenzione si fermò su un lungo articolo. L’articolo era la cronaca di un concerto tenuto qualche giorno prima nella famosa Sala degli Amici della musica, a Vienna. Talento immenso. Giovanissima pianista. Il miglior Chopin ascoltato da molti anni a questa parte. Un’ovazione al termine del concerto. Lessi attentamente e lentamente il titolo, l’articolo, riga dopo riga, carattere dopo carattere, e il nome della giovanissima pianista era, incredibile, assurdo, mentre i caratteri mi colpivano come frustate o spari, Irene Korczac. Irene Korczac ; esattamente questo il nome che ora stavo leggendo con i miei stessi occhi. La pianista Irene Korczac al Musikverein di Vienna, la sala degli amici della musica. La sua promettentissima carriera. Un incidente incredibile. Era un sogno ma non stavo dormendo. Rilessi l’articolo; rilessi tutto attentamente un’altra volta. Rilessi il nome. Io ero Irene Korczac. Uno scherzo, un inferno. Ero improvvisamente inaspettatamente da un momento all’altro divisa tra trauma e beffa. Evidentemente si trattava di un caso di omonimia. Accanto all’articolo c’era una sua foto, un primo piano. La foto della pianista ripresa durante il concerto, china sulla tastiera. Notai persino una certa somiglianza. Lei era bionda come me, aveva i capelli corti mentre io li avevo lunghi. Le labbra sembravano disegnate dalla stessa mano. La somiglianza mi sembrava sempre maggiore. Quegli occhi neri e scintillanti sembravano davvero i miei. Due gocce d’acqua, in effetti. Un’altra Irene Korczac! E pianista! E di grande talento! E riuscita! Grande! Irene Korczac si stava affermando nel mondo, stava diventando famosa, ma non ero io, era un’altra persona, un’altra carta d’identità. Lei aveva un anno in meno di me, a quanto leggevo nell’articolo. In quel momento, mentre nella mia testa immaginavo il suo concerto, la sua esecuzione gloriosa, ho avuto il preciso presagio che sarei morta di lì a poco tempo. Irene Korczac sarà lei, la famosa pianista, il giovane talento alla conquista dei maggiori teatri dei cinque continenti. Il mio posto l’ha preso un’altra, ora lei vive la mia vita, lei percorre la carriera che avevo un giorno lontano immaginato, lei dorme negli alberghi di mezzo mondo in cui avrei voluto e dovuto dormire io e suona nella sale da concerto dove avrei voluto e dovuto suonare io e su di lei si scrivono gli articoli di giornale che si sarebbero dovuti scrivere su di me, questa illustre sconosciuta, questa estranea, che vedo come un cadavere allo specchio. Sono spaventata a morte. E’ la mia ossessione. La mia insonne ossessione. Mi immagino di seguirla nella sua tournee e di notte, in un teatro vuoto, sedermi al pianoforte ed iniziare a suonare, lì dove il giorno dopo suonerà lei. Irene Korczac non la incontrerò mai. Non avrò mai il coraggio di incontrarla e di parlarle. L’unica mia possibilità è nascondermi, per sempre. Ho davanti a me soltanto questa strada. Anch’io ero Irene Korczac. Anch’io ero nata».

DIANA BEAUMARCHAIS


Lo spettacolo al Theatre du Vieux-Colombier finì, si chiuse il sipario, gli attori si presentarono sul palco. Applausi scroscianti del pubblico in estasi. La splendida interpretazione della giovanissima attrice, Diana Beaumarchais, nata a Lione, appena diciottenne. La nuova stella del teatro nazionale, la nuova promessa del teatro europeo, fulgida in questa nuova interpretazione di Romeo e Giulietta, si leggeva il giorno seguente nelle cronache dei giornali. La madre di Diana Beaumarchais, seduta quella sera tra il pubblico in terza fila, osservò la figlia raggiante e bellissima, che riceveva ora in dono un grande mazzo di fiori. La madre diventò nera di invidia. Sotto la sua maschera gelida quella sera si nascondeva un’invidia feroce, un accesso di odio invincibile. Gli attacchi di odio salirono in lei come una marea. Si sentiva stritolata dall’accesso, l’odio saliva come un’alluvione che la soffocava. Attacchi di ira tremenda, che la facevano uscire di sé. L’esistenza di quella ragazza, di quell’essere pericoloso, sua figlia, diventò in un certo senso la prova della sua stessa inesistenza. La madre, anche lei attrice, aveva avuto fino a quel momento una carriera mediocre, consumata tra insignificanti teatri di provincia. La carriera di attrice della madre, ormai cinquantenne, non era mai decollata, non era anzi mai realmente iniziata. Nella sua lucida follia lei avrebbe fatto pagare a Diana quel successo ridicolo, quel successo dovuto soltanto alla bellezza, quel successo seguito ad una interpretazione mediocre, l’interpretazione mediocre di un talento inesistente . Lei organizzava tutto. Nei suoi sogni la donna organizzava il suo crudele capolavoro. Lei allestiva la sua opera definitiva. Le avrebbe dato una lezione. Nei suoi sogni neri la figlia veniva rapita, sfregiata e accecata da quattro individui. Lei assoldava quattro sbandati e dava loro precise indicazioni, scriveva per loro una partitura perfetta. Lei assoldava quattro attori, che avrebbero indossato quattro maschere. I killer una sera rapivano Diana e la portavano in una casa isolata di campagna. La gettavano nel buio di una stanza, incappucciata. Si avvicinavano a lei con un coltello. Le sfregiavano il volto con l’arma affilata. I killer con il grosso coltello affilato affondavano nelle orbite, la accecavano e le cavavano gli occhi. La ragazza ferita e sanguinante urlava di dolore, e dopo pochi secondi sveniva. Dopo  qualche ora la ragazza si svegliava. Era sola. Gli occhi non c’erano più. Capiva cosa era accaduto. Impazziva. Gli occhi non c’erano più: lei non si sarebbe mai più vista allo specchio. Nessuno specchio al mondo avrebbe mai più riflesso quel volto. Decine, migliaia di specchi intorno a lei, ma il suo volto lei non lo avrebbe mai più visto. Ora non era più bellissima e non avrebbe mai più recitato su nessun palcoscenico. La ragazza veniva rinchiusa in un istituto adatto allo scopo. La giovane invalida, per il resto dei suoi giorni, fino al momento del suicidio. Quel bellissimo volto di adolescente era deturpato per sempre. La madre ora tornava a recitare. Per la prima volta in vita sua era baciata dal successo. Quella sera, dopo la rappresentazione di Spettri di Ibsen al Theatre Royal di Lione, la madre veniva raggiunta dai giornalisti nel suo camerino. Fotografie e richieste di interviste. Un giornalista le chiedeva della figlia, e del terribile episodio che l’aveva vista protagonista. La madre guardava il giornalista e diceva: ” Lei era troppo sensibile per questo mondo”. Non aveva retto! Non aveva retto la tensione del palcoscenico. Bisogna essere forti per recitare. Bisogna essere fortissimi per recitare fino a una certa età.

 



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :