L’atletica italiana, lo sappiamo, sta passando un momentaccio. I problemi sono innumerevoli e moltissimi vengono dal vertice. Da una Federazione che tante volte ha lavorato male e ha disperso via quel poco patrimonio che è sembrato arrivare nell’ultimo decennio.
Come accaduto con Andrew Howe, il talento più cristallino che sia capitato nel nostro Paese nel nuovo millennio. Nato nel1985 a Los Angeles; nel 1990, dopo il matrimonio di mamma Renée Felton con Ugo Besozzi, diventa italiano a tutti gli effetti.
E nel 2004 il Pianeta Atletica si stropiccia gli occhi di fronte ai numeri dell’enfant prodige. Ai Mondiali juniores di Grosseto stampa un pazzesco 20.28 sui200 metri e un incredibile 8.11 nel salto in lungo. Tanto per fare un paragone: a diciannove anni Usain Bolt correva in 19.99, Yohan Blake addirittura in 21.06 (e parliamo dell’argento olimpico di Londra!), Justin Gatlin in 20.29 (altro punto esclamativo), Lemaitre si fermava a 20.68. I tempi parlano chiaro, le valutazioni vengono di conseguenza.
Poi una crescita esponenziale che l’ha portato a volare addirittura a 8.41 al Golden Gala del 2006, a due soli centimetri dal record italiano di Giovanni Evangelisti, e a coronare la prima parte di carriera con un magistrale oro europeo a Goteborg, davanti a Greg Rutherford. Già proprio colui che ha vinto il titolo a cinque cerchi ad agosto…
Il primato nazionale, però, non tarda ad arriverà. Sarà il 30 agosto 2007 a portargli quegli otto metri e quarantasette centimetri in quella magica serata dei Mondiali Osaka quando solo un immenso Saladino gli toglie l’iride all’ultimo salto.
Proprio qui, però, sono arrivati i primi problemi per Andrew. Non ha mai scelto completamente tra 200m e lungo. Non ha mai abbandonato una delle due discipline. Era la scelta sicuramente da fare per potere concentrarsi al meglio su un obiettivo solo, ben fissato e preciso. Qui ha sbagliato sicuramente la Federazione che non l’ha costretto, obbligato e anche semplicemente convinto a tralasciare la velocità per praticare solamente il rincorsa-stacco. Qui, e i risultati parlano chiaro, avrebbe sicuramente spadroneggiato (o, meno ottimisticamente, se la sarebbe giocata in tutte le rassegne più importanti). È stata proprio questa indecisione a procurargli un infortunio muscolare sul rettilineo il 22 giugno 2008 in occasione della Coppa Europa. Lì è saltata tutta la preparazione olimpica e a Pechino si presentò, giustificato, in pessime condizioni non riuscendo nemmeno a superare la qualificazione (si stoppò a un non eccezionale 7.81m).
E gli infortuni si sono susseguiti uno dietro l’altro. Nel 2009 una grave lesione muscolare del bicipite femorale destro: riposo , fisioterapia e operazione. Ok il ritorno sembra ottimale l’anno successivo, ma che senso aveva impiegarlo sui 100m e sui 200m ancora una volta? scontato che la condizione non fosse eccellente e che il salto agli Europei di Barcellona era solo di 8.12m, lo stesso livello che aveva da juniores (curiosamente la stessa misura che a Londra sarebbe bastata per acciuffare un bronzo…).
Nel 2011 una gara va male e dice in diretta televisiva che non avrebbe più gareggiato nel lungo. La scelta sbagliata, al momento sbagliato. Tempistica tardiva, disciplina errata. Problema che nessuno si sia sostanzialmente opposto a questa decisione e non abbia cercato di indirizzarlo sulla retta via. Anzi. Va di male in peggio perché durante una seduta d’allenamento si rompe di nuovo. Questa volta è il tendine d’Achille a farne le spese. Ancora il sinistro, lo stesso operato l’anno precedente.
Non si doveva seguire meglio un talento del genere? Non andavano gestiti meglio gli interventi chirurgici e i successivi recuperi? Chi c’era accanto al laziale in questi periodi? Non si è avuto l’acume di tutelare nel miglior modo possibile un potenziale incredibile. Perché un infortunio in carriera ci sta, ma la sequenza affrontata negli ultimi quattro anni è qualcosa che esce da ogni regola e su cui l’atleta stesso e la sua allenatrice (mamma Renée) non hanno colpe in elevata percentuale.
Il pasticcio combinato negli ultimi mesi, con la Federazione che ha deciso di mandare a Londra solo gli atleti in possesso sì del minimo A ma solo se ottenuto nel 2012, è qualcosa al di fuori del ragionevole. Questo vale per tutti gli atleti azzurri, sia chiaro. Rimanendo su Howe, il minimo sui 200m lo aveva facilmente raggiunto l’anno scorso. Si doveva replicare ma la rincorsa non è riuscita fino in fondo: a Bressanone è arrivato sì il titolo italiano, ma a causa di un fortissimo vento (anche qui la scelta della location ha lasciato diverse perplessità) non è arrivato anche il minimo.
Le colpe di Andrew? Mah di certo l’impegno non è mai mancato, la voglia altrettanto, la classe non lascia dubbi. Forse lasciarsi ingolosire dal Kinder Bueno? Direi nemmeno visto che sono spot che durano un giorno e tolgono praticamente nulla ad allenamenti e concentrazione. Anzi possono essere degli stimoli, vista la visibilità e la notorietà che arrivano di conseguenza. Sicuramente l’indecisione tra le due specialità è colpa sua, come alcune scelte su allenamenti e recuperi. Ma sulle spalle di un ragazzo attorno ai venticinque anni non possono gravare scelte così importanti e cruciali per una carriera sportiva.
Ora ha già spento ventisette candeline che nel suo sport sono un traguardo sicuramente importante, ma possiamo dire a occhio e croce che avrà avanti ancora cinque anni buoni per esprimersi. Sarà una seconda giovinezza. E ci attendiamo ancora grandi cose. Perché un talento del genere non può essere buttato via così.
(foto Andrew Howe)
OA | Stefano Villa