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ANDRO’ GIROVAGANDO……, ECC., di GLG, 28 dicembre ‘13

Creato il 30 dicembre 2013 da Conflittiestrategie

(QUARTA PUNTATA)

 

1. Nel primo paese divenuto capitalistico, il “laboratorio” di Marx di cui abbiamo già scritto, la rivoluzione industriale – vera affermazione del modo di produzione specificamente capitalistico, con completamento della sottomissione reale del lavoro al capitale, ecc. – fu grosso modo completata negli anni ’40 dell’800, mentre era ancora in pieno corso negli altri paesi europei (e negli Stati Uniti, ecc.). Tuttavia, la rivoluzione sociale, che accompagnò la transizione dal feudalesimo al capitalismo, non fu affatto in Inghilterra così radicale come altrove. La borghesia – la supposta nuova classe dominante, caratterizzata dalla proprietà (privata) dei mezzi produttivi, quindi dominante in un primo tempo nella sfera sociale economica – non spazzò via la nobiltà (né, dopo breve interruzione, la monarchia), ma in varia guisa si acconciò a convivere con una sua parte, sia pure nettamente ridimensionata quanto a potere. Nella sfera politica (degli apparati statali e simili) e in quella ideologica, la commistione fu piuttosto notevole e particolare.

In Francia, pur in ritardo rispetto all’Inghilterra, la rivoluzione fu assai più drastica e, soprattutto quella del 1793-4, “tagliò la testa” alla nobiltà, non in senso soltanto reale, ma anche metaforicamente come cultura e ideologia. Eppure, se lasciamo da parte il pensiero propriamente filosofico (che, d’altronde, ha forse le sue punte più alte altrove, cioè in Germania), quello scientifico risultò in maggiore (e anticipato) sviluppo in Inghilterra rispetto alla Francia; risultato piuttosto probante in merito al fatto che l’estensione del potere dei dominanti dalla sfera politica (militare) e ideologica (culturale) alla sfera economica (produttiva) è stata in ogni caso importante per lo sviluppo di saperi, pur teorici, sempre più strettamente collegati tuttavia alla conduzione dei processi produttivi. Inoltre, la radicalità della rivoluzione francese – soprattutto evidente nelle sfere che erano state dominanti in precedenti formazioni sociali, cioè in quelle politica e ideologico-culturale – è infine sfociata nell’Impero, che non ripristinò certo, se non forse in alcune forme esteriori, l’atmosfera dell’epoca nobiliare, ma certamente non impresse particolare impulso al sistema produttivo francese, rimasto indietro rispetto a quello inglese proprio sul piano dell’avanzamento industriale e della scienza applicata all’industria.

Alla fin fine, sia pure con un ritardo legato alla forte presenza di ambienti nobiliari o di cultura a questi simile (gli junker in Prussia, cioè in Germania, e i “cotonieri” negli Usa), saranno questi due ultimi paesi a sviluppare un sistema economico, ivi comprese le classi in esso dominanti, in grado di contrastare l’Inghilterra, una volta che questa iniziò il suo declino durante l’epoca dell’imperialismo con entrata nel multipolarismo, prima fase del policentrismo in piena “fioritura” dal secondo decennio del XX secolo. La Francia della “grande rivoluzione” – che lo fu certamente da un punto di vista politico e ideologico-culturale – mostrò invece molti limiti in merito a quella più profonda ed epocale rivoluzione che condusse alla formazione sociale a struttura portante costituita dal modo di produzione specificamente capitalistico.

La Francia divenne un paese capitalistico di rilievo – ebbe pure vasti possedimenti coloniali – ma non fu mai il “prototipo” della suddetta nuova formazione sociale. Marx, giustamente, per studiare quest’ultima si rivolse alla “meno rivoluzionaria” (meno in termini di radicalità politica e culturale) Inghilterra, che fu eminentemente rivoluzionaria proprio per quanto riguarda i rapporti sociali di produzione considerati l’aspetto decisivo e strutturante la forma capitalistica di società, quell’aspetto in cui ormai, nella modernità, penetra a pieno diritto la politica – in quanto conflitto strategico per la supremazia – prima riservata alle sole sfere della politica e dell’ideologia (ai loro specifici apparati)

 

2. Questa premessa è decisiva per comprendere il significato del termine imperialismo con cui si delineò una certa struttura dei rapporti internazionali tra i diversi paesi capitalistici una volta che questi giunsero, chi prima (Inghilterra, appunto) e chi poi, alla definitiva affermazione della nuova formazione sociale. Chiarendo, inoltre, che l’anticipo o il ritardo del primato conseguito da tale forma societaria significò pure maggiore o minore “purezza” nello sviluppo del modo di produzione specificamente capitalistico (ad alta industrializzazione meccanizzata) nei diversi paesi: l’Inghilterra ovviamente in testa, la Russia indietro.

Durante l’epoca dell’imperialismo, ebbe sviluppo il movimento operaio, la crescita cioè di quella classe sociale ritenuta il “soggetto rivoluzionario”, che avrebbe infine affossato la borghesia iniziando la transizione alla formazione socialista e poi comunista. Ho chiarito in molti lavori degli ultimi vent’anni che tale classe era considerata da Marx (non però sempre con grande chiarezza) quale operaio combinato o lavoratore collettivo cooperativo, cioè come l’insieme del corpo lavorativo – dal massimo livello direttivo all’inferiore di tipo esecutivo – addetto alla trasformazione industriale nella fabbrica meccanizzata (in Marx non vi è assolutamente il concetto di impresa, invece decisivo per afferrare il carattere capitalistico della formazione sociale affermatasi soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo XIX). Un simile corpo lavorativo – che, pur diviso in strati sociali differenti per livello culturale e rilevanza nel processo produttivo in senso stretto, era pensato quale antagonista irriducibile della borghesia capitalistica, ormai divenuta soltanto proprietaria (dei mezzi di produzione) e non più dirigente dei processi industriali – non venne mai a formarsi. I marxisti successivi a Marx, e in primo luogo Kautsky, il reale fondatore del marxismo conosciuto nel XX secolo, ne presero atto, anzi ho la netta convinzione che non abbiano mai preso in considerazione la concezione marxiana. La classe operaia fu semplicemente quella addetta alle mansioni esecutive; la parte dirigente (salariata) fu considerata, ad es. da Lenin, quale insieme di specialisti borghesi (e la definizione rivela da che parte si pensava fosse schierata).

Il maggiore partito operaio (socialdemocratico e marxista) dell’epoca dell’imperialismo fu quello tedesco, di cui era appunto leader Kautsky. Non divenne “tradunionista” come i movimenti politici e sindacali a base operaia in Inghilterra, ma i suoi dirigenti si convinsero via via della possibilità di abbattere il potere della classe avversa per via pacifica e parlamentare. Hilferding – che si ritenne, del tutto erroneamente, avesse scritto con Il capitale finanziario (1910) un nuovo Capitale o comunque il suo decisivo aggiornamento – sosteneva la possibilità della trasformazione socialistica tramite un governo che controllasse la Banca centrale e dirigesse l’intero capitale creditizio secondo finalità pianificate nell’interesse dei lavoratori (salariati). In base alla concezione (molto ortodossa) secondo cui il modo di produzione capitalistico si sarebbe gradualmente esteso a macchia d’olio in tutto il mondo, la socialdemocrazia affievolì via via ogni opposizione alla politica coloniale delle maggiori potenze capitalistiche. In definitiva, considerò tale politica l’essenza stessa dell’imperialismo, che Kautsky infatti definì una semplice annessione di zone agrarie – grosso modo i paesi che assai più tardi furono definiti sottosviluppati, fornitori di materie prime (agricole e minerarie) e di fonti di energia – da parte dei paesi a modo di produzione capitalistico già sviluppato.

Senza che poi sia costretto a tornarci sopra, dirò subito che tale errore non è poi molto diverso da quello commesso da chi sostenne le tesi terzomondiste dopo la seconda guerra mondiale. L’unica differenza (certo rilevante) è che i socialdemocratici – convinti dell’allargamento del capitalismo dai primi paesi sviluppatisi in tal senso a tutto il mondo – furono in definitiva pronti a sostenere l’urto delle potenze in contrasto bellico per la conquista di maggiori aree mondiali; e condussero i partiti e sindacati operai da loro diretti (sempre più maggioritari nei vari paesi man mano che divenivano capitalistici in senso industriale) ad appoggiare il colonialismo (o comunque a non opporvisi). I terzomondisti sono venuti in una fase, in cui si cominciava ad afferrare la verità intorno alla scarsa “rivoluzionarietà” dei movimenti operai dei paesi capitalistici avanzati. Le masse dei paesi di tale “mondo”, sottosviluppati e soggetti al neocolonialismo, furono ritenute le eredi della rivoluzione, quella che gli operai non erano più in grado di promuovere nel “primo mondo”.

In ogni caso, però, sia il colonialismo antecedente la prima guerra mondiale, sia il neocolonialismo successivo alla seconda, furono ritenuti pressoché sinonimi di imperialismo. In questo modo si è persa ogni effettiva connotazione di tale situazione “geopolitica”. Lenin criticò recisamente la concezione kautskiana; e la sua critica colpisce egualmente bene il terzomondismo, pur con tutte le differenze del caso. Egli chiarì che i rapporti imperialistici (di predominio e sostanziale subordinazione) possono intrecciarsi pure tra paesi capitalistici di diversa potenza. L’importanza decisiva spetta alla politica di conflitto per la conquista di maggiori sfere di influenza. L’imperialismo sussiste dunque quando vi è un gruppo di potenze, ognuna delle quali non accetta più il predominio mondiale d’una di esse, lo rimette in discussione; in un primo tempo con atteggiamenti tendenti al raggiro, ad accordi temporanei soggetti ad essere disattesi non appena si verifichi un mutamento nei rispettivi rapporti di forza, per iniziare nuove contrattazioni, sempre con il coltello nascosto dietro la schiena e l’uso di mezzi vari di pressione ed eventuale minaccia e intimidazione o con blandizie e promesse poche volte mantenute e più spesso tradite.

In una situazione di “movimento” di cotal genere, vi sono paesi di minore forza, ma non certo di carattere agrario o sottosviluppato, che tendono ad inserirsi nei vari giochi dei paesi di superiore forza. In linea generale, i paesi in condizioni di inferiorità si alleano (anche subordinandosi) con alcuni contro altri, ma i loro accordi mutano sovente indirizzo e i governi di tali paesi sono assai poco affidabili; inoltre, non sono essi a condurre il gioco, tendendo invece ad affidarsi alla protezione di qualcuno dei più potenti, pur talvolta giostrando – ma solo nei limiti del possibile e quando i rischi di dure lezioni non siano molto elevati – tra l’una e l’altra delle grandi potenze. Parliamo quindi di potenze e subpotenze e di paesi, pur capitalistici, ancora più subordinati. I rapporti intercorrenti tra tutti questi paesi, non certo a carattere agrario o di semplice fornitura di materie minerarie ed energetiche, erano pur sempre, per Lenin, di carattere imperialistico. Di conseguenza, considerare l’imperialismo quale semplice sfruttamento delle risorse di dati paesi “arretrati” da parte delle grandi potenze (con i loro alleati minori, le subpotenze, ecc.) non fa capire nulla dei complessi giochi (oggi detti spesso geopolitici) sul piano mondiale.

Tanto per fare un esempio temporalmente molto vicino, quando Francia e Inghilterra hanno aggredito la Libia fingendo di agire per conto della Nato a predominanza statunitense, un rozzo concetto di imperialismo ha portato alcuni a concludere che i paesi aggressori (sicari) fossero tanto imperialisti quanto gli Usa. Errore madornale, che comporta l’impossibilità di giocare sulle contraddizioni interne a dati paesi, più che sviluppati in senso capitalistico e tuttavia subordinati ai giochi della vera grande potenza che li “surdetermina”. Scagliarsi indistintamente contro Usa, Francia e Inghilterra, impedisce ogni possibile alleanza (“antimperialistica”) con forze autonomiste nelle subpotenze (o capitalismi subordinati). Addirittura, impedisce collegamenti con ambienti della grande potenza predominante, che potrebbero coltivare visioni strategiche differenti da quelle dei gruppi al comando in essa in quella data congiuntura; differenze su cui giocare per favorire moti autonomistici nelle suddette subpotenze. E’ solo l’esempio di una possibilità, di un’eventualità, sia chiaro.

 

3. Lenin fu grande soprattutto nello svolgimento della politica in quanto strategia rivoluzionaria. Tuttavia, per motivi storici contingenti, fu convinto della necessità di difendere l’invecchiata ortodossia marxista, accusando di revisionismo Kautsky, quando invece il più ortodosso (sempre tenuto conto del mutamento, non consapevole, verificatosi nella considerazione del ceto sociale designato come “classe operaia”) era costui. Lenin fu un grande politico, ma meno incisivo fu invece il suo contributo teorico. Formulò però innovative tesi (in definitiva autentiche ipotesi ad hoc, come si dice nel campo delle teorie scientifiche in via di superamento): ad es. quella dell’anello debole della catena imperialistica, in cui era assai più facile accadessero eventi rivoluzionari piuttosto che nei paesi capitalisticamente avanzati. Oppure quella concernente le masse d’oriente, pur abitanti in paesi a capitalismo arretrato (o addirittura non capitalistici), di cui si sostiene la carica ben più rivoluzionaria rispetto al movimento operaio dei paesi capitalistici veri e propri; concezione che aprì la strada alla decisiva politica di alleanza degli operai – in definitiva rappresentati da una élite strategicamente preparata all’azione di rivolgimento sociale, pensata quale avanguardia della classe trattata da “soggetto rivoluzionario” per semplice fedeltà alla previsione marxiana in merito alla dinamica sociale del modo di produzione capitalistico, previsione già ampiamente smentita a quell’epoca (ma non se ne ebbe la minima consapevolezza) – con l’enorme massa dei contadini, effettiva ampia base di manovra per le mosse decisive della politica rivoluzionaria. E altre tesi ancora, su cui non mi soffermo.

Lenin, invece, ebbe assai meno coraggio, appunto, in campo teorico. Delle cinque caratteristiche da lui attribuite all’imperialismo, la principale, in tutta evidenza, era l’ultima, quella della lotta tra potenze per le sfere di influenza; la sua stessa tesi relativa all’anello debole, ecc. conduceva alla conclusione dell’enorme rilevanza della quinta caratteristica. Invece, Lenin affermò che, se avesse dovuto indicare solo una delle cinque per definire l’imperialismo, avrebbe scelto la prima: la formazione del capitale monopolistico. E’ vero che egli, con la sua sensibilità per gli aspetti concreti, rilevò subito come, in definitiva, il monopolio non indebolisse la concorrenza (tipica convinzione, invece, dell’ortodossia marxistica “occidentale”), ma la portasse invece ad un più alto livello. Tuttavia, le intuizioni servono a poco se poi non le si serve inserendole in una teoria che sappia assegnare loro il posto logicamente più corretto.

In altro articolo, più specificamente dedicato ad una nuova puntata della lotta contro il nefasto economicismo, specificherò meglio l’errore di interpretazione subito dal concetto marxiano di centralizzazione del capitale, ridotta a formazione del monopolio nell’ambito del mercato. Qui basti ricordare che l’idea del capitalismo monopolistico – cui fu poi aggiunto, in specie da marxisti francesi, l’ulteriore stadio del “capitalismo monopolistico di Stato” (autentica contraddizione in termini, specifico contraltare dell’altra insensatezza relativa al “socialismo di mercato”) – serviva per giustificare l’idea dell’imperialismo quale ultimo stadio del capitalismo. Nei marxisti più rozzi, il monopolio era pensato quale attutimento della competizione concorrenziale e, dunque, crescente ostacolo allo sviluppo del capitalismo. In Lenin, che non vedeva in questa forma del mercato la fine della concorrenza, il monopolio era comunque fonte di marcescenza, di putrefazione sociale e di crescenti difficoltà per lo sviluppo delle forze produttive.

Anche in tal caso, il grande rivoluzionario bolscevico introdusse notazioni diverse dalla vera e propria ortodossia. Prese in seria considerazione l’innovazione di processo rappresentata dal taylorismo (e fordismo) negli Usa, non accettò l’idea della semplice riduzione della borghesia a gruppo (viepiù ristretto) di rentier; criticò infatti la concezione diffusa da Hilferding in merito al capitale finanziario in quanto essenzialmente bancario, sostenendo che in realtà si trattava di “simbiosi” tra quest’ultimo e quello industriale (e già questo, oggi, in un momento di grave degenerazione e rimbecillimento del ceto intellettuale e dei cosiddetti “esperti”, sarebbe un passo avanti). E’ dunque evidente che Lenin si dibatteva tra la ganga ormai depositata dagli ortodossi (alla Kautsky) sull’originario pensiero di Marx, comunque pur esso da riconsiderare e rielaborare ampiamente alla luce dell’effettiva dinamica capitalistica verificatasi dopo la fase presa da lui in considerazione nel “laboratorio inglese” alla metà dell’‘800; rielaborazione mai effettuata, causa non ultima del fallimento socialistico del XX secolo.

Negli anni post-’68 ci si è trovati a discutere con gruppetti di marxisti che di Marx non sapevano nulla o quasi, pur essendo di rara presunzione e arroganza intellettuale. Aurelio Macchioro, spiritosamente ma acutamente, li definì “grundrissisti”, perché in effetti si erano formati nella lettura del “Frammento sulle macchine” nei Lineamenti (materiali preparatori de Il Capitale, interessanti ma ancora provvisori e che sarebbe stato meglio non pubblicare per almeno altri 50 o più anni, fin quando non fossero divenuti reali oggetti di studio di “storia del pensiero” e non testi di agitazione ideologica). I migliori (o meno peggiori) sessantottardi presero le mosse dalla lettura che di Marx aveva fatto Panzieri (comunque conoscendo almeno Il Capitale), personaggio di indubbia intelligenza e onestà intellettuale (e politica), ma che è stato negativo per il marxismo, dandone una interpretazione decisamente lontana dagli intendimenti di Marx, secondo cui il vero “soggetto” della sua analisi – ma nel senso di subiectum, “usato nei testi di Aristotele a designare ciò cui inerisce qualcosa: in tal senso s. è la materia prima attuata da una forma, e lo è la sostanza cui ineriscono gli accidenti” – è la merce; per null’affatto il processo di lavoro.

Eppure è in quest’ultimo che si attua (si svolge) la “potenza” implicita (contenuta) nella corporeità del lavoratore; ed è dunque nel processo di questo svolgimento (la potenza in atto) che si evidenzia il pluslavoro in quanto appropriato dal proprietario dei mezzi di produzione ivi impiegati (il capitalista). Tuttavia, tale personaggio chiave della moderna formazione sociale non impone al lavoratore rapporti (servili o di dipendenza personale) tali da obbligarlo a lavorare proprio per lui; stabilisce semplicemente, per contratto, di pagare la sua forza lavoro (quella potenza insita nella sua corporeità) alla guisa di una merce qualunque e dunque in base al valore d’essa: il lavoro incorporato nei mezzi necessari alla sussistenza storico-sociale del lavoratore, anche se questo lavoro incorporato (in merci) si rappresenta nei termini monetari del salario.

Solo così si riesce a capire la durata, la flessibilità, la capacità di innovare del capitalismo. Puntare subito il riflettore (la capacità di astrazione dedicata all’analisi della “realtà”) sul processo di lavoro fa immaginare un capitalismo dispotico – come poi lo è stato in realtà quello denominato invece “socialismo”, infatti non durevole e strutturalmente rigido – e dunque tale da suscitare infine la ribellione dei lavoratori. Errore fatale di ogni pensiero non semplicemente falso-marxistico, ma proprio economicistico, duplicato immediatamente dal suo antagonista polare, che è l’umanesimo filosofico, alla ricerca di un’illusoria liberazione del lavoratore dall’alienazione nel processo di lavoro, illusione che si piega infine alla richiesta di un capitalismo più generoso e attento all’uomo (“più umano” insomma). La frittata diventa così completa come si nota oggi nei nuovi giovinastri ed “economisti critici”, gente priva di pensiero che va combattuta prima ancora di ogni serio liberale, che almeno illustra onestamente la “superficialità” del livello libero-mercantile, laddove si gioca proprio la capacità egemonica dell’ideologia dei dominanti.

 

4. Ricordo bene gli anni di accentuazione dell’impostazione dogmatica e religiosa del marxismo da parte dei “gruppettari” del ’68 e seguenti, in gran parte del resto usciti dalle parrocchie come lo furono fior di brigatisti, di “potopisti” e via dicendo. Poiché non si era concluso l’iter della formazione sociale del capitale – pur a distanza di oltre mezzo secolo da quando Lenin aveva definito l’imperialismo “ultimo stadio” d’essa – si discettò sul termine ultimo. Si sostenne che non si voleva con ciò indicare lo stadio finale, ma solo l’ultimo in ordine di tempo. Mi vanto di aver subito dato degli scemi a simili “marxisti credenti”. In tempi un po’ meno lontani mi sono inoltre convinto che, a suo modo, Lenin non aveva sbagliato del tutto la sua definizione di ultimo (e proprio ultimo) stadio del capitalismo. In effetti, con la prima guerra mondiale si può, in un certo senso, considerare conclusa la storia del capitalismo borghese, quello che Marx aveva studiato nel “laboratorio inglese”, l’unico a sua disposizione quando analizzò le caratteristiche del modo di produzione capitalistico.

Il vero fatto è che per i marxisti del ’68 e seguenti (“andati a male”, come il pesce non messo in celle frigorifero) Il Capitale (conosciuto solo tramite i Grundrisse, come già rilevato) era la Bibbia di una “Nuova Religione”, di cui Marx era stato il Primo Profeta. In realtà, si trattava di un’analisi effettivamente scientifica del capitalismo: quello però formatosi in Inghilterra in seguito alla prima rivoluzione industriale (1760-1840 all’incirca). Con il declino del monocentrismo inglese e la fase di acuto conflitto policentrico sfociato nella Grande Guerra – fase conclusasi di fatto nel 1945 – quella formazione sociale “trapassò”. Solo che il marxismo, sia pure nell’opera di un grande rivoluzionario quale fu Lenin e anche nell’opinione di tutto il ceto intellettuale di tipologia marxistoide dell’intero XX secolo, era impostato sulla convinzione – giustificata in Marx dalla previsione (errata) circa la formazione dell’operaio combinato (dalla massima funzione direttiva all’ultima esecutiva), problema su cui ho discettato ormai in centinaia e centinaia di pagine – che la fine di quel capitalismo avrebbe visto il proletariato (la “classe operaia”) sostituirsi alla borghesia quale classe dominante, con inizio di un processo rivoluzionario di transizione al socialismo e poi comunismo.

Anche la “distruzione della ragione” (Lukàcs) aveva una sua ragion d’essere in quanto esaurirsi del pensiero “classico” della borghesia nella sua funzione rivoluzionaria ormai venuta meno, ma non certo mai sostituito da un inesistente pensiero “proletario”, dato che gli effettivi ceti sociali che era possibile definire operai (ridotti in realtà ai soli lavoratori di fabbrica) non avevano la cultura e l’organizzazione di pensiero (e la capacità di far emergere dalle loro fila un reale ceto intellettuale) atte a divenire egemoniche nella società. Per questo i “grandi rivoluzionari” del ’68, quasi tutti di estrazione “non operaia” (pur se hanno finto e ri-finto di proletarizzarsi in un’orgia di stupidità e cattivo gusto), sono infine divenuti i portatori di una cultura di tipo americano, per di più in forme del tutto degenerative (e quasi comiche) in Europa.

Al capitalismo inglese (da me detto borghese) non succedette il socialismo – le strutture sociali dell’Urss andarono configurandosi secondo modalità ancora da definire, ma comunque solo adatte ad una prima e rapida industrializzazione con conquista di decisive posizioni di potenza, il cui successivo indebolimento poteva forse essere evitato soltanto con la messa in opera di decisioni di stabilizzazione assai differenti da quelle realmente poste in atto; e si arrivò perciò al crollo del 1989-91 – bensì la formazione sociale affermatasi negli Usa, il cui modo sociale di produzione rispetta le forme mercantili e dell’impresa (che non è l’opificio industriale, la fabbrica, dell’analisi di Marx) ed è tuttavia una società ben diversa da quella inglese (ed europea tra fine ‘800 e seconda guerra mondiale), di cui francamente non abbiamo affatto alcuno studio del tipo de Il Capitale (libro I ovviamente, quello proprio marxiano).

Indubbiamente, nella prima “epoca storica” della società americana, in specie nella regione non a caso indicata come New England (Boston, ecc.), si era andata enucleando una classe in qualche modo simile alla borghesia inglese – classe che indubbiamente s’impegnò pure a fondo contro il sud cotoniero nella guerra civile, il più autentico atto di fondazione degli Stati Uniti in quanto poi divenuti prima potenza mondiale – ma che tuttavia non fu il gruppo sociale alla fine vincente, quello che ha veramente forgiato la formazione sociale di quella potenza. Ancora a fine secolo (1899), Veblen con il suo testo sulla “classe agiata” sembrò quasi un marxista ortodosso (mettiamo, tipo Hilferding) giacché questa classe era da lui indicata in sostanza quale insieme di rentier; più o meno come la pensava appunto certo marxismo, salvo la differenza che in Europa esisteva un movimento operaio (socialdemocratico) di forza sufficiente a far credere al prossimo rivolgimento e alla fine della borghesia (in realtà avvenuta) con presa del potere (mai verificatasi) da parte proletaria.

Il testo di Veblen è di fatto massimamente arretrato poiché non vede che, in definitiva, nel capitalismo americano vinceva una classe estremamente fattiva (e innovativa: si pensi all’auto, al metalmeccanico, quindi Detroit e non Boston), con largo posto conquistato dall’apparato manageriale e non semplicemente proprietario (dei mezzi di produzione, poiché questo era il capitalista per Marx, e il marxismo non è mai veramente uscito da quest’ottica ristretta). E tuttavia, anche se gli intellettuali (e “grandi esperti”, magari premi Nobel) sorvolano sul problema, oggi si rispolverano, pur mascherandole con diverse variazioni sul tema, le vecchie tesi vebleniane del primato dei finanzieri (cattivi, tanti Arpagone con naso adunco in agguato; non si ha ancora il coraggio di arrivare a Süss l’ebreo, ma poco ci manca!); semplicemente più rozze e arretrate di quelle di Veblen, che almeno arrivava a simili conclusioni 114 anni fa. La débacle dell’intellettualità europea odierna è ormai totale e disgustosa.

Gli economisti apologeti si fingono liberali e neoclassici, ma sono un’offesa a Walras come a Marshall come a Böhm Bawerk, e ancor più a Schumpeter, ecc.; e anche ad Hayek e altri. I “critici” fingono di essere keynesiani e sollecitano solo sconsolate considerazioni sulla totale odierna banalizzazione del pensiero del grande economista inglese. Sui marxisti ancora residuati mi risparmio offensive meditazioni. Anzi questi ultimi scivolano verso la filosofia, che rispetto molto, per cui sento solo noia e disgusto nei confronti di meschini ambiziosi, ovviamente “intubati” e riforniti di “droghe” dai ceti detti dominanti (solo servi che ricevono potere da oltreatlantico) per sputare le loro aberrazioni mentali. Così, a quasi un secolo dalla nascita della nuova formazione sociale sostituitasi al capitalismo borghese (di matrice inglese), non ne abbiamo una vera analisi e un’effettiva teorizzazione; solo alcuni schizzi. Credo sia molto più conoscitivo il cinema (americano in specie) dei mentecatti che si aggirano vestiti con i panni degli intellettuali, e sono fatti passare per “grandi pensatori”, per innovatori. Se però vogliamo essere onesti, è pure necessaria un’autocritica serrata di questo blog e di me stesso perché ben poco facciamo e, per dirla alla francese, “piétinons sur place”.

 

5. E’ banalmente vero che l’uomo ha sempre prodotto più di quanto necessario a mantenerlo in vita in condizioni “materiali” sempre migliori, più complesse, o come volete indicarle. Abbastanza banale mi sembra pure l’idea che il controllo dei mezzi atti ad ottenere il “di più” (rispetto alle necessità di vita via via crescenti nella storia dell’umanità) ha notevole rilevanza nell’attribuire il predominio a certe classi sociali. Chiarendo, però, che questi mezzi sono stati in un primo tempo gli uomini dediti alla produzione dei vari beni (ivi compreso il “di più” per i dominanti), ridotti a schiavi. Poi è venuto il controllo della terra, cui comunque i produttori sono stati  a lungo legati da vincoli di servaggio a favore di chi appunto ne aveva il possesso e godimento. Infine, caduto ogni vincolo servile, ha avuto importanza il controllo esercitato (anche per via di sanzione giuridica) sui mezzi di produzione; il produttore – divenuto libero da servitù varie, ma privo dei mezzi atti ad estrinsecare, con sempre maggiore efficacia (produttività), la sua attività lavorativa – si è trovato in condizioni di inferiorità rispetto ai possessori di tali mezzi (i dominanti), per cui è stato egualmente costretto a sottomettersi e ad accettare le condizioni da questi imposte.

Non a caso, viene considerato carattere precipuo dell’uomo la prerogativa di costruire strumenti sempre più perfezionati, dunque in grado di accrescere l’efficacia (produttività) del suo lavoro. E chi, in definitiva, possiede questi strumenti, avrebbe un atout decisivo. Il controllo, in quanto uso dei mezzi (i vari savoir faire all’uopo necessari), è stato per millenni nelle mani dei produttori. Quindi i dominanti si facevano portatori di complessi processi storico-sociali atti a ridurre questi ultimi alla schiavitù e al servaggio; ciò ha comportato la “costruzione” di complesse “sovrastrutture” – gli apparati della sfera politica, di quella ideologica (e culturale in genere) – con le quali i dominanti tenevano i produttori in condizioni di netta inferiorità quanto a potere nella società. Gli apparati politici servivano a sottomettere direttamente i produttori tramite l’esercizio di violenza, se necessario; fondamentale attività di tali apparati era la “sorveglianza” – circa il rispetto di quelle date regole sociali da parte dei produttori onde garantire la riproduzione dei rapporti di sottomissione – e la “punizione” di ogni strappo a tali regole. Nel contempo, una altrettanto complessa “creazione spirituale”, una “produzione del pensiero”, si cimentava – con lunghi periodi storici di successo – nel far diventare credenza di massa, convincimento sociale generale, la necessità di mantenere e riprodurre quei dati rapporti di dipendenza servile.

Una volta caduti tali rapporti di dipendenza servile personale, si è dovuto ricorrere agli strumenti del potere politico e a quelli ideologici per convincere l’insieme societario della sacralità della proprietà (dei mezzi produttivi), che ognuno sarebbe stato in grado di acquisire per propri meriti e con le proprie capacità produttive, con i propri savoir faire, ecc. La generalizzazione di una produzione di merci, in sempre più intenso scambio reciproco, non è stata decisa e voluta da qualche mente particolarmente “evoluta” e capace di imporla all’insieme degli individui nella nuova formazione sociale (capitalistica); tuttavia, una volta creatasi, si sono andati costruendo i vari apparati, del potere politico e ideologico, per conservarla e svilupparla. E l’attenzione dei vari pensatori – per null’affatto soltanto i marxisti – si è andata concentrando sulla necessità di esercitare il potere, sia politico che ideologico, per salvaguardare, in modo del tutto particolare, quella sfera produttiva considerata cruciale per assicurare l’esercizio della preminenza nella società.

La differenza tra i marxisti e gli “altri” si constata soprattutto in riferimento all’analisi di questa sfera economica. Marx ha colto un aspetto rilevante del capitalismo. La generalizzazione della produzione mercantile non poteva essere garantita che dall’eguaglianza tra gli scambisti in reciproca competizione. Avvenuta tale generalizzazione sulla base della formazione di una “storicamente specifica” classe dominante – in qualche modo intrecciatasi pure con alcuni strati delle vecchie classi nobiliari – era ovvio che il produttore, liberato da vincoli servili, dovesse diventare scambista di una qualche merce; e questa, in assenza di possesso dei mezzi produttivi, era la sua forza o capacità lavorativa. Da qui, come messo in luce molte volte, nacque la teoria del plusvalore – forma di valore del “di più” di lavoro erogato dal prestatore di forza lavoro in rapporto a quello necessario a mantenerlo nelle specifiche condizioni di ogni data fase storica del capitalismo – che ha come sua base esplicativa la divisione della società tra chi ha la proprietà (potere di disposizione) dei mezzi produttivi (i dominanti) e chi invece ne è privo avendo la sola disponibilità (contrattuale, nello scambio mercantile) di detta capacità lavorativa.

Per gli ideologi dei dominanti, ovviamente (ma non per particolare volontà di inganno e subornazione), la competizione nel mercato assicura a tutti eguali possibilità di emergere come vincitori. L’importante è garantire per legge (imposta e applicata dallo Stato) il rispetto delle regole del libero scambio mercantile, perseguendo gli imbrogli, inganni, malversazioni, l’uso di altri metodi e strumenti implicanti imposizione forzata, ecc. Non ha alcuna rilevanza, per questa impostazione teorica, il possesso o meno dei mezzi produttivi poiché ogni individuo sarebbe “naturalmente” interessato soprattutto al soddisfacimento di determinati suoi bisogni. L’uso dei mezzi produttivi è solo un marchingegno per ottenere quantità crescenti di beni in grado di soddisfare questi bisogni, anch’essi crescenti. Non si consuma dunque tutto ciò che si ottiene con il proprio “libero” lavoro; una parte la si accantona (risparmia) per investirla nell’ottenimento dei mezzi di produzione necessari all’accrescimento della quantità dei beni e del conseguente soddisfacimento dei bisogni.

Il fatto che poi questi beni divengano merci dipenderebbe dall’altrettanto “naturale” predisposizione dell’uomo a specializzarsi nell’ottenimento di uno o pochi fra gli svariati mezzi indispensabili a simile soddisfacimento; specializzazione che accresce pure la capacità produttiva dei vari “soggetti”. Questi ultimi – sempre per un processo “naturale”, che sarebbe nel contempo una progressiva scoperta della razionalità umana – diventano infine organismi complessi di cooperazione fra più individui (nelle imprese), in cui alcuni portano (come merci) i mezzi produttivi e altri la propria attività lavorativa (sempre in forma di merce). Afferma Marx: “c’è stata storia, ma ora non ce n’è più”, perché con il capitalismo, finalmente, l’uomo scopre mediante ragione la naturalità vera (quella più efficiente, guarda caso) della produzione ai fini del massimo soddisfacimento dei suoi bisogni con la migliore utilizzazione possibile degli “scarsi” mezzi a sua disposizione (applicazione prioritaria del principio del minimo mezzo o del massimo risultato).

 

6. Se uno vuol ragionare in termini generalizzanti, non errati in se stessi a patto di riconoscerne l’uso fatto e i fini che si vogliono così conseguire, altre generalizzazioni, oggi forse più congrue, possono essere pensate. Fin dai primordi della società degli uomini, vi è stata la tendenza a lottare per la spartizione e insediamento in dati territori; e poi, via via, per la conquista di posizioni di potere nei più svariati ambiti; fino alla società capitalistica, dove si pensa diventi preminente la spartizione del potere nell’ambito del mercato. In ogni caso, si svolge un conflitto per la supremazia in settori vari dell’attività umana in società.

Nell’ambito del marxismo – interessato in definitiva a porre in luce l’appropriazione del pluslavoro pur nelle condizioni dell’apparente (non nel senso di falsa) eguaglianza fra gli individui nell’ultima fase della formazione sociale (capitalistica) – si è data forte accentuazione al problema della proprietà (potere di disposizione e controllo) dei mezzi produttivi. In un primo tempo, si trattò del possesso diretto dell’individuo produttore (schiavo), poi della terra cui quest’ultimo restava legato (con ciò essendo obbligato a produrre a favore del proprietario terriero, il feudatario). Infine, con il modo di produzione capitalistico, fu sufficiente (per il dominio nella società) il possesso e controllo dei mezzi materiali (materie prime, strumenti, ecc.) che servono nei processi produttivi, limitandosi ad acquistare come merce la capacità lavorativa (la forza lavoro) – necessaria a mettere in moto tali mezzi – di uomini liberi da qualsiasi vincolo servile.

In Marx è del tutto evidente l’interesse precipuo indirizzato all’analisi dei rapporti sociali (“il capitale non è cosa ma rapporto sociale”), sia pure rapporti sociali di produzione, quindi quelli esistenti nella nervatura della società complessiva, pensata quale modo di produzione (sempre un modo sociale, non le modalità tecniche di svolgimento dei processi lavorativi, come hanno interpretato molti pseudo-marxisti). Il reale economicismo è quello degli ideologi della classe dominante, fissati con il problema del mercato in quanto “mano invisibile”, ecc. mentre il potere politico (essenzialmente giuridico) spetterebbe allo Stato (quello appunto del “diritto pubblico”), trattato da “vestale” degli interessi generali dell’intera collettività. Non è un caso che alcuni (sciocchi o peggio?) hanno oggi riscoperto Marx in quanto anticipatore della “globalizzazione” dei mercati; questo è vero, rozzo, economicismo, del tutto opposto all’interesse del grande pensatore rivoluzionario (però di 150 anni fa!). E altri banali o imbroglioni (a tutto campo) hanno allora combattuto l’economicismo, inventandosi il Marx dell’umanesimo, dell’alienazione e altre limitatissime idee degne di filosofastri volonterosi d’essere apprezzati da dominanti sempre più carenti in fatto di dignità di pensiero.

L’attenzione puntata prevalentemente sulla proprietà – lo ribadisco, non meramente giuridica, bensì quale potere di disporre; per cui anche il vertice di una impresa a proprietà “pubblica” può essere considerato “proprietario” – dei mezzi di produzione conduce comunque a considerare dominante, durante la prima fase di sviluppo del capitalismo, la classe (borghesia) che assume posizione preminente nella sfera economica dei rapporti sociali. In ogni caso, mi si consenta una digressione, mai diventa per un marxista dominante la classe dei banchieri o, più generalmente e impropriamente, quella dei semplici rentier. Come chiarì Lenin, il capitale finanziario vede comunque tra loro intrecciate (in simbiosi) banca e industria. Per quanto potente sia il banchiere, per quanto indubbiamente la sua funzione si autonomizzi ed egli possa credere che i soldi facciano soldi (“alla Pinocchio”), è indubbio che il denaro non può non condurre, magari in altri soggetti della sfera economica, alla proprietà dei mezzi di produzione e alla capacità di usarli per produrre merci impiegando forza lavoro, “estraendo” da questa il pluslavoro in forma di valore e nel suo carattere di profitto dell’impresa industriale che, tramite l’interesse pagato, ne trasferisce una parte a quella bancaria.

Considerare la proprietà dei mezzi di produzione come l’aspetto più generale e fondante il potere della classe dominante conduce alla convinzione che l’apparato politico (ad un certo punto soprattutto lo Stato) sia semplice strumento nelle mani di detta classe, ne rappresenti gli interessi nel loro aspetto più generale. Secondo me, si tratta comunque di un passo avanti rispetto alle teorie degli ideologi dei dominanti che vedono nello Stato semplici funzioni di amministrazione degli affari sociali di tipo generale, ivi compresa la sorveglianza del rispetto delle regole create (dal diritto, dalla consuetudine, ecc.) e la punizione di ogni fraudolenta deroga alle stesse.

La stessa cosa dicasi per gli apparati di trasmissione dell’ideologia che permea una data formazione sociale, ivi compresi gli organi del suo apprendimento, ecc. Da una parte (ideologi dei dominanti), si pensa ad una semplice e neutrale amministrazione e trasmissione della cultura che si è andata formando storicamente; e che dunque fonda quella determinata regolamentazione della società (della riproduzione dei suoi rapporti). Dall’altra, i critici (in specie i marxisti) trattano sia la cultura sia i suoi apparati quale ulteriore garanzia della riproduzione dei rapporti sociali che assicurano il predominio ad una data classe.

 

7. A me sembra che comunque il marxismo abbia avuto il merito di demistificare le funzioni supposte generalizzanti della struttura d’apparati formatasi nella sfera politica ed in quella ideologico-culturale; funzioni che vengono ritenute di carattere semplicemente amministrativo volte al miglioramento dell’organizzazione sociale con finalità di regolazione, sorveglianza, punizione, ecc. Il marxismo individua in tale struttura una rete di “canali” lungo i quali scorre la riproduzione di quei dati rapporti implicanti il prevalere di certi gruppi sociali. Lo Stato viene analizzato e teorizzato quale organo al di sopra della società, staccato da essa, onde preservarlo, eventualmente anche mediante esercizio di repressione violenta, da possibili “turbative” (non a caso dette dell’ordine costituito) in grado di corroderne le basi, di sgretolarlo, ecc.; con ciò mettendo a repentaglio l’organizzato svolgimento della vita sociale e dunque la sicurezza e il benessere dell’intera collettività di abitanti nel territorio sottoposto appunto all’autorità di quel determinato Stato.

In realtà, lo Stato è strettamente collegato alla società e alla riproduzione dei suoi rapporti in cui predomina una certa classe (o frazione di classe); e da quest’ultima esso riceve, sia pure in modo non visibile, gli impulsi decisivi a svolgere le sue funzioni secondo modalità atte a mantenere integro il potere della classe in questione (soltanto una parte della società) sull’insieme. Quando la classe dominante nella società (anche perché ha il controllo di quel certo Stato) ha svolto il suo compito di sviluppo, quando cioè il suo predominio entra in sempre più netto contrasto e stridore con le condizioni di esistenza della maggioranza della società in questione, è del tutto “legittimo”, anzi indispensabile, l’abbattimento di detto predominio, processo che esige sempre l’attacco e la distruzione di quello Stato solo apparentemente neutrale, in realtà funzionale alla vecchia classe dominante (ma non più egemone).

Tale disvelamento – strettamente correlato e congiunto a quello dell’eguaglianza (dovuta all’equivalenza) nello scambio mercantile, in quanto carattere “borghese” (capitalistico) che maschera il prelevamento del pluslavoro nella forma del valore (e nella figura del profitto) – non va assolutamente abbandonato e ancora una volta mistificato attraverso varie elucubrazioni di semplice carattere umanistico, di “pietà” per i sottoposti, i diseredati, gli alienati, insomma i poveri reietti, che intellettuali imbroglioni – in servizio permanente attivo dei gruppi dominanti, tramite il solito “antagonismo polare” – contrabbandano quale critica del capitalismo; e che poi, del tutto “naturalmente”, sfumano nella richiesta di un “capitalismo più umano” via via che questi intellettuali avanzano nelle loro carriere di semplici saltimbanchi, ancora più odiosi, meschini e vili di quelli direttamente in forze per mascherare la preminenza di dati gruppi sociali.

Il disvelamento marxiano è scientifico, e come tale va ritenuto quale passo compiuto nella direzione di una sempre più approfondita conoscenza dei meccanismi funzionali alla riproduzione di rapporti sociali “storicamente determinati”. Una conoscenza che, come ho chiarito più volte, non ha per me alcun traguardo raggiunto definitivamente con la convinzione di avere finalmente “riprodotto la realtà nel cammino del pensiero” (Introduzione del ‘57); non insisto dunque qui su tale punto. L’importante è ricordare che tale modalità di disvelamento attribuisce comunque al gruppo sociale dei possessori dei mezzi di produzione il carattere di classe dominante.

Da qui deriva quel certo economicismo dell’impostazione marxiana, che gli epigoni hanno però grossolanamente inteso quale predominio pressoché assoluto dei gruppi preminenti nella sfera economica sulla società tutta, in base anche ad una rozza semplificazione del rapporto tra la base della formazione sociale – appunto la sfera economico-produttiva – e le sue sovrastrutture rappresentate da Stato e ideologie. Engels stesso ha tentato qualche (insufficiente) correzione, introducendo l’idea dell’azione di ritorno delle seconde sulla prima, ma è del tutto evidente che è rimasta comunque in molti marxisti “volgari” la convinzione di un primato della base economica nelle trasformazioni sociali, duplicato poi dall’altra rudimentale interpretazione relativa al primato dello sviluppo delle forze produttive in grado di produrre la trasformazione dei rapporti sociali di produzione.

In ogni caso, l’idea di modo di produzione e dei suoi rapporti sociali – quale nocciolo strutturale interno della società umana nella sua lunga storia evolutiva – nasce dal presupposto che sia prevalente il carattere proprietario dei mezzi produttivi: 1) uomo/schiavo; 2) terra/produttore a questa legato; 3) mezzi di produzione impiegati nei processi lavorativi/lavoratori salariati “liberi” ma privi di tali mezzi e infine espropriati pure dei saperi necessari al loro uso (nella fase della sussunzione reale del lavoro nel capitale). Il modo di produzione è una rete di rapporti sociali in trasformazione (per “salti storici”), non un’evoluzione di strumenti e tecniche lavorativi. Tuttavia, il concetto è influenzato dai processi che hanno condotto dalle formazioni precapitalistiche a quella capitalistica; in particolare, è stata considerata decisiva e centrale la transizione dal potere esercitato dai dominanti nelle sfere dette sovrastrutturali (tramite le quali si realizzava pure la potestà sui mezzi produttivi: direttamente sugli uomini lavoratori o su questi in quanto legati alla terra di proprietà dei dominanti) al potere esplicato direttamente nella sfera economica della produzione di merci (e dunque in quella della moneta necessaria allo scambio d’esse), grazie alla proprietà dei mezzi di produzione.

Questa concezione ha dato tutto quello che poteva dare nei termini della fondazione scientifica dell’analisi relativa alla “struttura” dei rapporti nelle diverse formazioni sociali succedutesi durante la lunga storia dell’umanità. Essa ha poi condotto ad una specifica rappresentazione della “lotta di classe”, che ha prodotto la grave distorsione di trattarla fondamentalmente nel suo svolgimento “in verticale”, tra dominanti e dominati; mentre appare del tutto evidente che la maggior parte della storia è percorsa dalla lotta tra dominanti e, inoltre, anche nei momenti di crisi e trapasso da una formazione sociale all’altra, non sono le classi più propriamente subordinate a provocare la trasformazione “rivoluzionaria”. Questo, Marx l’ha ricordato più volte pur se fu convinto che, per la prima volta nella storia, la situazione si sarebbe presentata diversa nella trasformazione della società a modo di produzione capitalistico. Egli fece un decisivo errore di previsione in merito all’enuclearsi, in seguito alla dinamica interessante tale modo di produzione, del lavoratore collettivo cooperativo in quanto necessario soggetto della transizione al socialismo e comunismo.

 

8. I poveri marxisti (appunto “volgari”) hanno allora abbandonato ogni tentativo di scientificità, distruggendo il lavoro di Marx e dei suoi migliori seguaci, i quali comunque – come spesso ho ricordato – avevano modificato la concezione del soggetto rivoluzionario, ripiegando sulla semplice classe operaia nel suo senso limitativo di lavoratori delle mansioni inferiori, pur sempre intrinseche al processo lavorativo di trasformazione industriale eseguito nell’opificio di trasformazione, la fabbrica. La differenza tra fabbrica e impresa si spiega facilmente facendo ricorso all’analogia del rapporto tra cervello e pensiero. Senza cervello non si può pensare; se una o più parti rilevanti d’esso si guastano, le idee si fanno come minimo molto confuse. Tuttavia, il pensiero non è semplice secrezione (di “umori”) del cervello. Quest’ultimo è la base di ogni ragionare; ma la “sovrastruttura” del pensare è decisiva per spiegare e seguire lo svolgimento storico delle forme della vita umana, sia individuale che sociale.

Non si può evidentemente immaginare nessuna società in evoluzione senza la capacità di fabbricare prodotti sempre più numerosi, gran parte dei quali sono materiali nel senso più proprio del termine. Nella società capitalistica, molti dei prodotti legati ai processi trasformativi sono ottenuti nei luoghi di produzione detti fabbriche. Tuttavia, un’impresa non può limitarsi alla fabbrica, al luogo addetto alla trasformazione “materiale”; non funzionerebbe proprio, alla fine decadrebbe e sparirebbe. Nei fondamentali capitoli sull’ottenimento di plusvalore relativo – cooperazione, manifattura, grande industria (quarta sezione de Il Capitale) – Marx tratta appunto del mutamento subito dai processi di lavoro (addetti alla trasformazione, alla fabbricazione) nel corso della transizione dalla formazione sociale precapitalistica (in definitiva, la feudale) a quella a modo di produzione (specificamente) capitalistico predominante.

Non soltanto egli pone al centro dell’analisi la sfera economico-produttiva, in cui per la prima volta nella storia entra massicciamente il potere dei dominanti (in precedenza, come più volte ricordato, esercitato nelle sfere politico-militare e ideologico-culturale), ma fa di tale sfera quella ormai preminente in quanto si colloca in essa la borghesia. Questa classe sociale dirige le fabbriche, i processi trasformativi, nella prima fase del capitalismo industriale (macchinico). Secondo Marx, però, li dirige in quanto ha la proprietà (potere di disporre difeso dalla funzione, coercitiva e non solo ideologica, del “suo” Stato) dei mezzi produttivi. Come Marx chiarisce ne Le glosse a Wagner, il capitalista contribuisce alla formazione di ciò (il plusvalore in quanto pluslavoro), di cui si appropria; ma l’appropriazione, non meno che il contributo alla creazione, dipende dalla proprietà dei mezzi di produzione, e non viceversa.

L’interesse principale di Marx non si rivolge al processo trasformativo in senso stretto (con i suoi metodi e tecniche lavorativi), bensì al rapporto che si forma nella società capitalistica, prima ancora che nelle fabbriche, in seguito al divenire classe dominante della borghesia, della classe proprietaria dei mezzi di produzione. L’elemento cruciale della predominanza nella nuova formazione sociale è dunque rappresentato da tale forma proprietaria; la direzione dei processi produttivi (di fabbrica) ne consegue. Con il prosieguo dello sviluppo della società borghese (identificata con quella capitalistica, sempre per il motivo più volte chiarito che Marx usa il “laboratorio inglese” per analizzare il modo di produzione capitalistico), si verifica la scissione tra proprietà e direzione dei processi trasformativi, assegnata a lavoratori salariati (a quell’“ingegnere”, di cui Marx parla come facente parte dell’operaio combinato assieme al “manovale”).

Il capitale, dunque, è rapporto sociale e non cosa (come lo è invece per gli economisti dei dominanti ancor oggi); tuttavia, è il rapporto sociale vigente nella struttura considerata portante della società capitalistica (o borghese), cioè nella sfera economico-produttiva di quest’ultima. Questo rapporto sociale è fondato sulla proprietà dei mezzi di produzione da parte della borghesia, mentre un’altra classe, pur costituita da individui ormai liber(at)i da vincoli servili, ne è priva(ta): prima formalmente durante una lunga fase di sviluppo della manifattura, poi realmente (cioè degli stessi savoir faire relativi alla trasformazione, alla fabbricazione) nell’ultima fase manifatturiera che precede, poiché prepara, la massiccia introduzione di macchine nei processi lavorativi con riduzione dei “produttori” ad appendice delle stesse.

La proprietà dei mezzi produttivi è perciò considerata da Marx decisiva, di prioritaria importanza, per appropriarsi il pluslavoro dei lavoratori. Essa lo diventa però quando il lavoratore è libero individuo; altrimenti la proprietà cruciale non attiene ai mezzi di produzione, è invece quella del lavoratore stesso (schiavitù) o della terra cui questi è legato da vincoli di dipendenza (servitù della gleba). Quando si afferma la libertà dei lavoratori, base fondamentale del potere della nuova classe dominante (la borghesia) diventa appunto la loro separazione (espropriazione) dai mezzi di produzione, la loro riduzione a venditori di merce forza lavoro, lo scambio generale di merci prodotte, ecc. ecc. La parte finale del primo libro della grande opera marxiana (il cap. XXIV sull’accumulazione originaria) sunteggia proprio questi processi storici.

In definitiva, l’accusa di economicismo a Marx si ritorce semmai contro gli economisti dei dominanti e i marxisti “volgari”. Nel pensatore di Treviri è il rapporto sociale a contare, non l’economia tout court. Chi ha voluto criticare l’economicismo marxista senza capire tale problema ha infatti condotto un semplice attacco al nocciolo scientifico della sua teoria, producendo solo chiacchiere di ancor più volgare carattere umanistico, fumosità da “anime belle” prive di una qualsiasi valenza conoscitiva. Ancora oggi alcuni “cretinetti” insistono su questa via di totale dissoluzione non semplicemente del marxismo, ma proprio di ogni pensiero dotato di un minimo di consistenza e coerenza. Bisogna riconoscere a Marx questa consistenza e fare i conti con le conclusioni cui era giunto partendo dalla convinzione di una centralità dei rapporti sociali di produzione.

Non vi è dubbio che in lui assumono cruciale rilevanza sia le funzioni espletate dai vari soggetti nella loro interrelazione in società sia la dinamica evolutiva di quest’ultima. Tuttavia, supponendo la preminenza della “struttura” relazionale esistente nella sfera economica della società (in quanto “anatomia e fisiologia” della stessa), egli ne trasse previsioni specifiche in merito alla necessaria trasformazione (non certo pacifica e graduale) del capitalismo sulla base della formazione di un diverso rapporto implicante la tendenziale cooperazione lavorativa nella produzione delle basi materiali della vita associata, la cui forma sarebbe divenuta prima socialistica e poi comunistica. L’ormai comprovato fallimento di tali previsioni deve spingere ad una riflessione molto differente; senza però perdere il lato della scientificità (da non confondere con la semplice applicazione di misure afferenti alla cosiddetta tecnica), cioè del rigore (massimo possibile) nel porre certe premesse, in sede di ipotesi, traendone poi una serie di passaggi logicamente coerenti fino alle conclusioni, tutte da valutare poi in sede di evoluzione storica.

 

9. Non mi dilungo troppo su temi da me a lungo trattati. Ho sostenuto che, proprio tornando ai caratteri più generali della vita associata degli uomini nelle più differenti formazioni sociali, si deve passare dalla centralità della proprietà dei mezzi produttivi a quella del conflitto per la supremazia tra diversi gruppi sociali, conflitto che è il nocciolo della politica in quanto appunto serie di mosse strategiche per ottenere il conseguimento dello scopo primario perseguito. Ho altresì chiarito che, per assegnare alla “realtà” lo statuto di qualcosa di totalmente esterno a detta vita associata (e al conflitto che la permea), deve essere supposto – supposizione in quanto vero e proprio postulato, indimostrabile punto d’inizio del ragionamento che ne consegue – un permanente squilibrio caratterizzante l’ininterrotto fluire in cui siamo immersi e ci muoviamo.

Per poter agire stabiliamo una successione di campi di stabilità, che sono rappresentati tramite le teorie all’uopo costruite. Questi campi di stabilità sono delle fissità, sono statici, il che contraddice fin da subito il fluire ininterrotto della “storia”. Le teorie, e i loro campi di stabilità, non sono mai inerenti al flusso “reale”, anche se spesso qualcuno lo crede, è convinto di poter ad esso aderire istante per istante, di essere cioè in grado di immergersi in esso per farsene trascinare aderendovi perfettamente. Non è mai all’opera, come a volte si pensa, un meccanismo immediato di stimolo-risposta; tra l’uno e l’altra si interpone sempre un periodo di tempo di differente lunghezza: a volte pressoché istantaneo (e si crede allora di poter aderire al flusso squilibrante), altre volte lungo da far credere alla sua eternità. Chi formula determinate teorie (spesso pur senza nemmeno la consapevolezza di farlo) deve poi trascinare più imponenti “masse” sul campo di stabilità così costruito per disporle in battaglia. E’ così che le teorie si trasformano in ideologie, in credenze di tipo sempre religioso (abbiano o meno un Dio a disposizione), che cristallizzano quel campo o lo predispongono a più lenti e impercettibili mutamenti. In tal caso, le teorie, anche quelle inizialmente innovative, diventano fortemente frenanti; il che non deve far subito pensare che ciò sia sempre negativo perché può ben essere il contrario, ma questo è problema a parte.

Nel conflitto tra teorie (e campi di stabilità) – poiché esse sono pure il mezzo per combattere la lotta tra gruppi sociali in vari ambiti dell’attività umana, che non sono solo quelli considerati quale sede della politica nel suo senso più comune e abituale – vi sono quasi sempre dei vincitori e si suppone allora che questi abbiano rappresentato (più) adeguatamente una data “realtà”; o almeno l’hanno rappresentata in modo tale da poter trascinare in campo forze decisive ai fini della vittoria e/o le hanno meglio disposte sul terreno di battaglia. Tuttavia, le teorie – e non parliamo delle ideologie in cui possono trasformarsi allo scopo di procurarsi un ben più ampio seguito – non sono mai convincenti (e “realistiche”) per sempre; anche chi vince dovrà infine accorgersi (o se ne accorgeranno i suoi seguaci e successori) che il risultato dell’affermazione conquistata “sul campo” non è affatto quello pensato, perseguito, fortemente voluto. Ad un certo punto, sopravverrà sempre la delusione; e i maggiori delusi saranno quelli che hanno creduto alle teorie come ideologie veritiere, saranno le cosiddette masse, che allora magari si rivoltano come un nido di vipere contro chi credono le abbia ingannate.

Il discorso, certamente, meriterebbe più ampie considerazioni, ma non sono quelle che qui adesso servono per afferrare meglio l’errore commesso da chi sperava di rovesciare l’ordine di cose esistente, di trasformare quindi la realtà sociale consentendo l’avvento – considerato insito nello svolgimento della dinamica capitalistica – di una nuova formazione sociale priva di drastici antagonismi tra “classi”. Si è creduto addirittura di “riprodurre la realtà” dello svolgimento sociale nella storia, facendo riferimento alla centralità della proprietà dei mezzi produttivi. Indubbiamente, si è fornita così una prima rappresentazione di unità a questa storia – pur con i suoi salti più o meno bruschi, con i suoi rivolgimenti (sia nel tempo che nello spazio delle diverse civiltà) – concentrando l’attenzione sulla formazione di quel “di più” prodotto dagli uomini in rapporto alle necessità di mantenimento e sviluppo della loro vita associata; e si è individuato un meccanismo di appropriazione di questo “di più” da parte di una parte soltanto della società (appunto per merito della proprietà/potere di disporre dei mezzi produttivi).

Chi cerca di regredire da questa “scoperta” ripristinando teorie (ormai ideologie) di piena giustificazione di tale proprietà è certo da combattere. Ancor più da combattere sono però coloro che rappresentano semplicemente l’ulteriore “spiaggia” (non dico ultima) della difesa dei predominanti; questi ultimi aprono alle critiche, ma a quelle che non fanno loro troppo male, a quelle che cianciano di vere utopie, destinate a non fare molta strada tra le più ampie masse; oppure a quelle che, pur giunte temporaneamente al successo, dimostrano rapidamente di instradare la società in vie fallimentari, tali da ridurre il tenore di vita sociale, da sfasciare ogni ordine nella conduzione della società in modo da creare disagi insostenibili che poi esigano il ripristino di condizioni più accettabili, facendo ricorso ad ormai necessari, ineludibili, “stati d’eccezione”.

Questi intellettuali “critici” (che più critici non si può) stanno attualmente pullulando, disfacendo ogni comune pensiero minimamente razionale o anche di semplice buon senso. Non ne faccio adesso un elenco perché sarebbe troppo lungo; ma sono i peggiori, più pericolosi dei vecchi ideologi dei dominanti (i “liberali”), sono assai più reazionari e soprattutto distruttori di ogni pensiero minimamente ragionevole. Sono i “nuovi mistici”; essi sostituiscono alla religione, a noi almeno nota e a cui sappiamo come adattare la nostra razionalità e perfino la scientificità, nuove credenze cupe e sragionanti in grado di rammollire il cervello di quote decisive di “ceto medio” (semi-intellettualizzato) che occupa tutti i canali di informazione, riducendo il tessuto sociale ad un colabrodo da cui filtrano i “mostri” di un pauroso disfacimento culturale e di civiltà. I gruppi di dominanti odierni, ormai ridotti alla ricerca del “gattopardiano” almeno un altro mezzo secolo di vita (che per loro è l’eternità), alimentano e blandiscono questi cialtroni dell’intelletto, che a noi procurano però sventura; e sono quindi da annientare e disperdere non appena possibile.

 

10. La centralità della proprietà dei mezzi di produzione ci ha purtroppo dato la visione di un antagonismo sociale semplicisticamente duale; e ha creato la credenza del rivoluzionamento della società borghese – in quanto processo necessitato dall’oggettiva dinamica del modo di produzione capitalistico – operato dal lavoratore collettivo di fabbrica. Senz’altro non si trattava in Marx della semplice classe operaia in quanto lavoratori esecutivi addetti ai processi lavorativi di trasformazione svolti nei settori industriali; e tuttavia mai si è realizzata una effettiva cooperazione (con sociale vicinanza) tra “ingegnere” ed “ultimo manovale”. Ci fosse anche stata, ripeto che l’impresa non è la fabbrica e che – ancor più fondamentale – la sfera economico-produttiva non deve essere considerata quella centrale nella società; è la base, come già detto, nello stesso senso del cervello in quanto base (materiale) del pensiero o del computer in quanto hardware, base indispensabile per il software.

Qualcuno ha ricordato che in Marx c’è un barlume di consapevolezza – poi persa in teorie marxiste successive – della crescita di strati intermedi, cuscinetto tra i due antagonisti la cui lotta era considerata decisiva per la trasformazione del capitalismo nella nuova formazione sociale socialista (preparazione, gradino preliminare, di quella comunista); trasformazione, detto per inciso, che Marx pensava già in atto mentre viveva e scriveva la sua grande opera: ancora una volta suggerisco di leggere le sue più che chiare indicazioni in merito nel paragrafo 7 del capitolo XXIV sull’accumulazione originaria. Che cosa sono tuttavia in Marx questi strati cuscinetto? Il pezzo più esplicito in proposito si trova nel vol. II delle Teorie sul plusvalore che afferma: “Ciò che egli [Ricardo] dimentica di mettere in evidenza, è il costante accrescimento della classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano sulla sottostante base lavoratrice e accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti”.

Intanto sappiamo che l’operaio è per Marx quello combinato, è l’intero corpo lavorativo di fabbrica; su questo pesano tali ceti medi, poiché sono mantenuti proprio dal pluslavoro (plusvalore) degli operai, che dunque alla fin fine non possono che considerarli come una sorta di “servitori” mantenuti dal reddito dei “signori” (i capitalisti e i proprietari fondiari). I ceti medi, di cui parla Marx, sono essenzialmente quelli delle professioni dette “liberali”, sono gli artigiani in via di esaurimento e di espulsione dal mercato in seguito ai processi di centralizzazione del capitale. Non vi è affatto l’idea dei manager, che fanno parte del sistema lavorativo in quanto dirigenti (salariati), ma non sono mai stati cooperanti (né economicamente né tanto meno politicamente e culturalmente) con i lavoratori esecutivi di fabbrica. Non è presente il concetto moderno di piccoli imprenditori (et pour cause, dato che non esiste la minima idea di impresa) dell’industria o del commercio, ecc. Non sussiste consapevolezza della crescita esponenziale dei settori dei servizi; né dei settori della seconda e ancor meno della terza rivoluzione industriale, il che è del tutto evidente poiché Marx era un essere umano che conosceva solo quanto esisteva nel suo tempo, non un mago profetico come lo si è fatto diventare. In Marx, ad es., manca la consapevolezza delle innovazioni di prodotto, piuttosto rilevanti per la modifica della struttura dei rapporti sociali; egli considera prevalentemente quelle di processo in quanto sfocianti nella nascita di fabbriche di dimensioni via via maggiori con numero crescente di operai, macchinari sempre più giganteschi, ecc. Lasciamo quindi perdere i ceti medi a cui egli accenna, del resto incidentalmente.

Se prendiamo le mosse dall’altra, più fondamentale, caratteristica delle più svariate formazioni sociali – il conflitto tra strategie per la supremazia – vediamo sparire il semplice antagonismo duale; lo scontro coinvolge gruppi sociali (ognuno composto da più strati sociali) che si compongono o scompongono in base a contrastanti interessi e a differenti motivazioni ideologiche, anch’esse dipendenti da svariate derivazioni d’ordine religioso, etnico, culturale, di strutture sociali e politiche consolidatesi in una lunga storia (salvo quella statunitense, non a caso sfociante nella formazione di una società molto flessibile, anche grazie ad apporti delle più diverse popolazioni del mondo). Per oltre un secolo, i critici anticapitalistici (rivoluzionari o riformatori) hanno insistito sul dualismo tra classe borghese e classe operaia, entrambe già tramontate, come operatività radicale, all’epoca della prima guerra mondiale. Dopo c’è stata l’orgia del conflitto terzomondista che, stringi stringi, si è ridotto infine ad uno scontro tra ricchi e poveri. Nemmeno cerco adesso di elencare tutte le miserie ideologiche dei “critici critici” dell’attuale società.

Si deve infine partire dalla compiuta presa di coscienza, non più ridiscutibile, della reazionarietà di ogni riduzione dell’antagonismo alla sua versione duale. Non solo; si usino pure, a volte e per necessità quasi solo verbali, i termini “dominanti” e “dominati”. Si sappia però che si tratta di un linguaggio del tutto approssimativo e schematico; del tipo di quello in uso nell’indicazione dello scontro, o dei rapporti di predominio/subordinazione, tra popoli o tra paesi vari: Stati Uniti, Russia, Cina, Germania, Italia, Iran, Irak, e via dicendo. In linea generale il conflitto è tra diversi raggruppamenti sociali, tra cui corrono rapporti condizionati dalla loro maggiore o minore forza, rapporti che mutano in tempi più o meno lunghi. Ogni raggruppamento è composto da più strati sociali disposti in verticale, con determinate élites dirigenti o almeno egemoni, che forniscono all’insieme il modello di vita da imitare (sia pure con possibilità di imitazione assai diverse) e le ideologie cui aderire.

Se prendiamo, tanto per fare un esempio, il cosiddetto movimento operaio, ormai da lunga pezza esso è rappresentato da partiti e sindacati muniti di vertici dirigenti, che considerare dominati sarebbe piuttosto comico. Si tratta di gruppi (a più strati) in conflitto con altri gruppi per motivi legati ad interessi contrastanti; ad es. lottano contro organizzazioni imprenditoriali dell’industria, del commercio e della banca, pur essi “costruiti” intorno alla disposizione in verticale di vari strati muniti di poteri assai differenti. Molto spesso si stabiliscono nel conflitto alleanze tra gruppi di lavoratori salariati e altri di carattere imprenditoriale contro alleanze consimili, ma mosse da altri interessi. Le stesse considerazioni valgono quando si fa riferimento a gruppi che si formano in base ad ideologie di carattere religioso o di appartenenza etnica o invece, come accade soprattutto in paesi capitalistici di più antica formazione, per motivi nazionali, regionali, d’area, ecc.

 

11. Secondo me, rispetto ai liberali con le loro “robinsonate” relative alla visione di una società costituita da tanti individui, il marxismo ha rappresentato un avanzamento scientifico. Tuttavia, si è trattato di un primo passo (come disse Althusser, il marxismo ha aperto il continente Storia alla scienza); e doveva essere riconosciuto in questo suo carattere ancora rudimentale, che si fonda su una visione di antagonismo duale nella lotta (detta “di classe”) per la supremazia. Intendiamoci: in dati casi è indispensabile, nella prima approssimazione all’analisi, attenersi a divisioni schematiche; così come accade pure nei momenti cruciali in cui il conflitto si condensa nel violento scontro tra due schieramenti. Tuttavia, vi sono sempre più lunghi periodi di conflitto (e alleanza ai fini dello stesso) assai più complicato e mai semplicisticamente duale; e soprattutto caratterizzato dall’estrema mutevolezza della disposizione delle forze in confronto più o meno acuto o smussato. In simili periodi, ogni teoria di antagonismo duale è destinata a logorarsi e a perdere di vista i mutamenti che stanno ormai corrodendo il precedente assetto dei gruppi in confronto reciproco e che provocano spesso pure il cambiamento della struttura interna di tali gruppi.

Da molto tempo ormai, il marxismo, così com’era stato configurato soprattutto dai seguaci di Marx, ha smesso di essere operativo e capace di confrontarsi con il mondo formatosi soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Di Marx va ritenuto lo spirito scientifico, estremamente innovativo 150 anni fa, poi sempre più indebolitosi perché trasformatosi in mera ideologia, cioè nella cristallizzazione di una visione del mondo posta alla base della creazione (teoria) di un campo di stabilità per condurre la lotta nel mentre il flusso squilibrante degli eventi continua a scorrere tumultuoso. Questo spirito scientifico è stato snaturato da filosofastri ed economicisti della peggiore specie, alimentati da classi (sub)dominanti di rara miseria culturale e, direi, mentale.

Nell’attuale fase storica, per motivi che andremo – spero – sempre più chiarendo, deve essere ripristinato un atteggiamento scientifico, abbandonando lo schema del confronto duale, divenuto fortemente reazionario e impediente rispetto ai compiti della costruzione teorica di un nuovo campo di stabilità. Dobbiamo analizzare diversi raggruppamenti in conflitto, composti da un certo numero di strati di varia tipologia. In questo momento, per motivi che qui tralascio poiché saranno compito di studi e discussioni ulteriori e di livello “meno astratto”, sembra assumere particolare rilievo l’analisi del conflitto tra paesi. Entro certi limiti, si sta riproponendo una sorta di “epoca dell’imperialismo”: la seconda, la prima essendo stata quella a cavallo tra XIX e XX secolo. Detto meglio: stiamo entrando in una fase multipolare, che dovrebbe sfociare nel policentrismo conflittuale acuto.

La prima epoca di tale tipo fu “disturbata” dal sedicente movimento operaio (raggruppamento sociale ben munito di élites dirigenti con vari strati al seguito), che trasformò in ideologia (“dottrina”) il pensiero di Marx con effetti in buona parte positivi soprattutto nella prima fase del suo sviluppo; alla fine del periodo, però, prevalsero quelli negativi, ormai un intralcio alla lotta per la trasformazione dei precedenti equilibri. Risolse la questione Lenin, credendo di restare fedele al marxismo (e in parte lo fu, ma questo fu il suo limite), spostando l’asse della lotta per la trasformazione sociale ad “oriente”. Ne sono seguiti eventi di primaria grandezza da analizzare con nuove categorie di pensiero, quasi tutte ancora da elaborare. Oggi prevale ancora nettamente un pensiero reazionario che, come sempre accade, crea la sua “cintura protettiva” alimentando il ben noto antagonismo polare tra concezioni in vicendevole sostegno. I filosofastri e gli economicisti “critici” rappresentano oggi il nemico principale per ogni effettivo avanzamento del pensiero; e i pochi marxisti rimasti (marxisti per autodefinizione presuntuosa, perché sono i più grandi traditori dello spirito scientifico di Marx) sono i più reazionari di tutti, veri elementi cancerogeni.

Per il momento metto termine a questa faticaccia; non posso certo avere la pretesa di rimettere in sesto una situazione culturale così gravemente compromessa. Anch’io, del resto, non posso non essere invischiato nel pensiero di stampo “critico”, che soprattutto nell’ultimo mezzo secolo è divenuto pesantemente reazionario. E di fronte stanno ancora i liberali, che continuano a credere alle robinsonate, pur se indubbiamente rielaborate e molto arricchite di nuove sfumature. Il lavoro da fare è immenso; e se i giovani continuano a “trantranare”, non ne usciremo mai. Ci si pensi!

 

F I N E


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