La mia vita raccolta su me,
ogni volta che ho avuto paura,
è un oggetto.
(Angela Argentino, Di questo silenzio)
Angela Argentino, poetessa di Lefkada (uso la qualifica ‘poetessa’, in onore della sua lontana consorella Saffo che si dice scomparsa volata da una roccia a picco sul mare dell’isola) apre questa sua opera prima, la quale visto il talento dell’autrice dal passo misurato e dalla voce argentina da “sirena imprigionata” (Lamento) potrebbe essere la prima di una serie, con una siluette a mo’ di autoritratto del tutto interiore. “Ditemi!”, si rivolge ai lettori come fosse una corifea di antica memoria, e le facciamo largo, noi del coro, a lei e alla sua ombra che calcano la scena mentre ci frastorna con un discorso fitto di “irrisolti ossimori” (Dicembre 2010) su luci e ombre incontrate sulla strada della vita “che [le] cammina a fianco”, fino a raggiungere il proscenio quasi di corsa, sagoma tragica che si dibatte per liberarsi dal groviglio delle sue ombre: siciliana d’origine, donna di mezza età.
S’indovina un volto segnato da una vita di fatiche, che però non compare: affacciato com’è sull’ombra, la parte conflittuale di lei. Sulla quale verremo informati man mano che ci addentriamo nella lettura della silloge, testimonianza singolare di una migrante che uno si figurerebbe autodidatta ma che invece è dotta assai, e che pur stando da anni in Grecia non ha perso il succo della sua sicilitudine. Pronta a metamorfosare un ‘gaucho’ argentino(!), il poeta Carlos Sánchez, in un mozzo siciliano “invecchiato all’ombra della lava/ che rende[…] più verde il mare delle Eolie” (vedi la sezione Dedicat). La poesia indugia su questo “Vate di poesia domestica,/ dolce e disillusa”: una delle molte figure emblema della cerchia di Angela (il marito Apostolos che chiude “gli occhi dei vecchi che muoiono soli”, la figlia Isabella metà greca metà siciliana “che cela e espone le morbide linee del mio viso,/ che sempre sparge il miele del sorriso”): figura di poeta grazie alla quale l’autrice riesce a definire l’ambito della sua di poesia, domesticità incantata vissuta nell’isola con sullo sfondo un’altra domesticità isolana agognata e ripudiata o dalla quale la poeta in erba si sentiva ripudiata (Poter chiudere i conti…), quella della natia Sicilia che la riporta indietro nella sfera degli affetti familiari di un tempo, fino all’epifania del volto paterno. Che fa da contraltare al conturbante ritratto della madre con “la sua treccina di fini capelli” (I capelli della madre, vedi il capitolo Nel mio abbraccio), preceduto da un cammeo: Dammusi, ossia la minuscola reggia degli antenati “carichi di fatica e di fierezza.// In penombra fragrante di carrube”. Episodi che si concludono con una riflessione amara, quasi un soffio della scrivente (che è e non è sua madre vissuta in povertà): “A che serve parlare?”. “Di tegole e vecchie porte,/ di rivoli d’acqua in discesa,/ di donne informi e vocianti/ m’è rimasto l’odore e il canto” (Noto).
Come Dammusi e Noto, la poesia Ai Yanni Antzousi (chiesa di Lefkada) si ispira a un altro dei topoi, dei Luoghi cari ad Angela. “Silvestri acque smeralde/ sciabordano al piede della roccia…”, inizia questo piccolo miracolo di poesia tutto giocato sul contrasto tra fuori e dentro, tra la distesa scintillante della marina intravista tra i pini e il “concavo silenzio” all’interno della chiesetta bizantina sul mare: “davanti alle tue icone,/ ascoltiamo la preghiera del mare.// Come in utero materno, troviamo pace/ in penombra d’incenso.” In un idillio lefkadiano di soli sei versi, l’a cappella di due preghiere, dell’uomo o meglio della donna e della natura, dà voce alla pace ritrovata della poetessa siciliana nella vita nova sull’isola.
Questa emigrata coraggiosa che riesce “a liberare lo spirito dell’uccello che indomito,/ in me, sbatte le ali” (Segesta) in forma di canto, e “mangia la Sicilia” meta di un suo viaggio-pellegrinaggio, in giro tra “uomini belli ed amurusi” che la fanno sentire ancora “fimmina cco scuoppu” pari a “la Grazia/ che rallenta il suo corso/ per farsi acchiappare” (Trilli al galoppo in rondò), ha scritto poesia fin dalla tenera età e non si è mai scoraggiata malgrado le sue paure e l’ombra di un professore al quale aveva affidato i suoi scritti che non ha mai più rivisti. Mi piace immaginarla “tortor[a] e cingallegr[a]/ su[i] rami pesanti di fiori” di Lefkada darsi al canto come un rapsodo, da efebo “quale io fui” (Dicembre 2010), e augurarmi che questa emula di Bach e Vivaldi nell’allenare il suo talento perpetuum mobile nonostante il passare delle stagioni, per il bene della famiglia allargata dei suoi isolani delle due isole e nostro ovviamente, non si perda d’animo e non maturi mai.
…………………………………………………………………………………………………………………………..Arnold de Vos
Ditemi
Ditemi ! Riuscite a far combaciare
il catasto della percezione di voi
con l’ombra che questo ingranaggio proietta per strada?
Lo zampillo di gioia ,
il fardello di pena ,
l’ insensato residuo di desideri ,
combaciano ancora
con l’ombra della vita che ci cammina a fianco?
La mia gioia che è silenziosa
si proietta garrula nell’ombra ;
la mia pena dai confini fissati
dilaga ,per strada , infinita ;
i desideri superbi
appaiono spenti nell’ombra
come catene che frenano l’ansito e la corsa .
Alzo allora i mei pugni nell’ombra
per scioglier le catene
e mi appare un ricamo di artigli,
di code contorte,di serpi .
.
Dammusi
Qui vissero a proteggersi dal sole
i miei antenati ,
carichi di fatica e di fierezza .
In penombra fragrante di carrubbe
passarono la vita
come piccoli despoti senza terra .
Dicembre 2010
Tempo di bilanci
questo mese che chiude un decennio tondo
di un millennio nuovo .
Poca Storia Maiuscola
molta miseria .
Tempo di bilanci per me
Povero efebo maturo
Dagli irrisolti ossimori .
Andate via, anni !
Portatevi appresso il dolore
che mi ha segnato.
Buttatelo in qualche oceano profondo
dove non possa altra donna
raccoglierlo,
scambiandolo per dono.
Lo so ! Non ho mai avuto le istruzioni per vivere.
Solo per caso, vivendo,
ho trovato gli interruttori per accendere la luce
e molti fuochi.
E pertanto ho vissuto ,
di tanto lavoro e disumana energia.
E ho trascurato senza capirlo ,
per sopravvenuti limiti di resistenza .
Ho lasciato andare
quanto credevo mi appartenesse ,
dalle maglie sempre più larghe della mia stanchezza .
E quando ho capito che il dono speciale del tuo amore
era l’invidia di chi amore non aveva ,
e quando ho capito che le mie spalle voltate
avevano allagato la tua pietà…
e cercavi me ,sempre me e ancora me ,in un efebo pietoso quale io fui ,
allora si spezzò dentro me
quell’angelo di vetro trasparente
che avevo appeso sopra la mia testa .
Mi caddero i cocci addosso e mi ferirono a sangue .
Urlai di dolore e dilagante pena ,per anni .
Ma efebo quale sono ,non contemplai le colpe .
Non avevo istruzioni.
Così di nuovo, senza saggezza in eredità,
emergevo e affondavo in continuo naufragio
che ancora oggi
non mi fa approdare alle rive sicure del tuo amore .
Tempo di bilanci , tempo di lasciare
questo efebo in un museo della memoria
e uscire allo scoperto ,
piccola donna carica di crudeltà ereditata .
I capelli della madre
Argento la sua treccina di fini capelli
che scende ,bambina,sulle spalle stanche .
Pensieri,domande,incertezze,dolori ,
siedono muti dietro le lenti.
A che serve parlare?
Di questo silenzio
Di questo silenzio affranto ed inesploso
che si è installato
come chili di troppo
intorno alle linee del mio corpo,
che farne?
Di questo silenzio nel rumore,
disperso a brandelli vivi,
di questo silenzio che parla
al mio cuore
parole ancora indistinte
di cui ho forse paura,
che farne?
La mia vita raccolta su me ,
ogni volta che ho avuto paura ,
è un oggetto.