Angela, la Malandrina – Storia di brigantaggio e libertà
di Maria Concetta Preta
Tutte le memorie vengono avviate da un nome. Il mio è Angela, ma qualcuno potrebbe chiamarmi Diavola, a pensare alla mia vita. Non dirò il cognome, anche perché non mi sono mai sentita di appartenere a quello che solo sulla carta fu mio padre.
Chi era mio padre? Un violento che detestava li fimmani e se la prendeva con mia madre, me e le mie sorelle, lupo arraggiato ché non aveva avuto il masculo.
Mia madre era una sottomessa sempre muta e che se ne stava a testa bassa, reclusa in casa, piena di dolori, sfiancata dagli aborti e dalle botte.
Le mie sorelle furono maritate appena diventarono signurine, ché prima se le toglieva di torno mio padre, più contento era. Io, invece di essere venduta a un massaro puzzolente come le sue greggi, decisi di fuggirmene.
E ne andai senza rimpianti da quella casa primitiva, da quel paese nascosto in una pozza d’ombra scavata tra i monti e circondato da una campagna brulla. Tutti così – o quasi – i paesi dell’ex Regno delle Due Sicilie che ora faceva parte dell’Italia. Io non sapevo cosa era l’Italia, chi ci governava, quale lingua si parlava, cos’erano le leggi. Io ero analfabeta. Firmavo con una croce, il simbolo più importante della mia piccola vita.
Era notte fonda quando misi insieme le mie poche cose e mi lasciai dietro la tristezza e la disperazione. La casa, alle mie spalle, era un incubo che si allontanava. Nel corsetto tenevo la Madonna delle Cinque Piaghe, che mi proteggeva. Non sapevo dove andavo a finire.
Presi la via del bosco, che conoscevo bene, ma mi assalì la paura. Ad ogni passo mi pareva che il sentiero si apriva sotto i miei piedi e che sprofondavo nell’inferno, dove i diavoli ballavano e ridevano. Ero terrorizzata ma
dovevo andare avanti, una smania angosciosa mi portava a camminare senza fermarmi. A un tratto, caddi a terra stremata su una coltre di foglie secche e sterpame.
Mi svegliò il sole con la sua rassicurante carezza. La mia testa era libera, per la prima volta mi sentivo felice, sapevo di appartenere solo a me stessa. Dopo non so quanto tempo, avevo fatto un sogno, non un incubo.
L’unico pensiero andò a mia madre che, ormai sola, si sarebbe spenta di giorno in giorno senza di me. La immaginavo nella cucina, davanti al focolare, con il raschiare secco della sua tosse cronica, lo scialle sfilacciato sulle spalle curvate, lo sguardo spento, il lutto portato a vita.
Per la prima volta camminavo con passo leggero, la luce pioveva dall’alto come un miracolo, le gocce di rugiada erano perle iridescenti, io mi sentivo far parte della natura intatta di quei luoghi sconfinati. Ero padrona della mia vita.
Mi accorsi di essermi persa, ma non me ne fricò nulla. Non avevo mai avuto paura della montagna anche se mia nonna mi raccontava davanti al braciere di lupi, streghe, maghi, folletti e soprattutto di loro … dei briganti.
Chi erano ‘sti mangiaturi di cotrari che si arrubbavano le donne? Rinnegati, senza-dio, fuorilegge, assassini … o difensori dei deboli che lottavano contro i nuovi padroni?
Da quando c’era stato lo sbarco dei mille e Garibaldi era stato ferito sull’Aspromonte, da quando poi erano arrivati li Piemuntisi, noi poveracci vedevamo un nuovo regno che si sgretolava come una frana che scende a valle e mille confusi intrighi, accordi tra i prepotenti, cospirazioni.
Ricordavo l’immagine bruciata di Garibaldi nella piazza del paese e poi la notizia del plebiscito che fece diventare una l’Italia. A quel voto non partecipammo le donne, perché non contiamo nulla noi femmine. Zitte e a testa bassa dobbiamo stare.
Il torrente si perdeva fra i sassi del greto e tra le pietre l’acqua sussurrava, mentre mi sciacquavo la faccia e sorridevo al nuovo giorno.
Era il giorno più lungo della mia vita, lo passai cibandomi di quello che trovai tra i rovi o che cadeva dagli alberi, e sempre camminando e guardandomi le spalle. Non trovai nessuno sulla mia strada, e mi rendevo
conto solo in quel momento di quanto era infinita la Sila. Eppure stavo seguendo un sentiero, mi ero procurata un bastone, mi ero coperta la testa, avevo ammucciato capelli con la barritta di mio padre, gli avevo rubato pure un paio di calzoni perché mi camuffai da uomo per non destare strani pensieri in qualcuno, ché lo so quanti pericoli corre la fimmana quando è sola. Mentre camminavo mi chiedevo se ero all’inizio di qualcosa di nuovo. Dove andavo a finire, cosa facevo della mia vita … nienti sapia.
Vinta dalla stanchezza, dal digiuno e dal sonno, non ricordai dove ero cascata e quanto ho dormito. Quando mi risvegliai, mi trovai davanti un volto di bambina dalle lunghe trecce che mi sorrise e mi offrì una ricottina calda. Era una pastorella, paffuta e scalza, piena di energia. La mia guida. Non poteva parlare perché è muta.
La seguii per l’intera giornata, tra balze e torrenti. Io, lei e le tre caprette, tutte fimmani. Dove mi portava non lo sapevo né glielo potevo chiedere. Ci fermavamo per bere il latte caldo, per i bisogni e per sciacquarci. Al tramonto, arrivammo in una grotta.
Stavano tutte sedute attorno al fuoco. Fimmani vestite da uomo, fumano sigari e sono armate fino all’osso. Non si fecero meraviglia nel vedermi, mi accolsero con naturalezza ma con poco garbo. Qualche domanda, tante risate. Capirono subito la mia storia e la mia vita, me ne promisero una nuova, ora ero un loro ostaggio.
Da allora feci parte della loro banda. Chi sono? Le donne dei briganti che infestano i boschi della Sila e briganti loro stesse. Le derelitte, le eretiche, quelle senza-casa e senza-chiesa, che hanno abbandonato pure i figli e i mariti per imbracciare un fucile. Le svergognate, le reiette.
Io, che peccati non ne avevo, diventai una di loro. Per scelta, non per costrizione. Convinta di fare, per la prima volta, qualcosa che nasceva da me e mi affrancava dalla schiavitù. Diventai ‘na briganta per essere libera.