Bologna, Teatro San Leonardo. Per la foto ringraziamo Massimo Golfieri.
Nel 2008 l’artista Max Eastley e lo sperimentatore sonoro Rhodri Davies registrarono in duo un disco intitolato Dark Architecture, un’esperienza al confine tra performance e musica, e per questa ragione di ambiguo risultato per l’ascoltatore, il quale rimaneva sospettoso di fronte a dei suoni di provenienza così “pratica” da risultare allo stesso tempo fisici ma incompleti. Oggi questa composizione verrà liberata dal limite audio e introdotta all’interno di un contesto che la renderà apprezzabile in tutte le sue forme. La componente visiva, della quale Eastley si farà principale attore, risulterà infatti fondamentale per esplicare il significato di quei suoni nascosti all’interno di uno sciame, rivelandone interessanti particolari.
Qualcosa nel loro sodalizio è cambiato nel corso degli anni, un fatto inevitabile, vista la preponderanza dell’improvvisazione e visto il massiccio uso del caso come regolatore degli eventi. Sta di fatto che dal vivo è comunque riconoscibile l’impronta degli studi compiuti insieme dai due per questa scultura sonora. Sul palco Max Eastley giunge munito del suo famoso Arco: una lunga struttura in legno le cui estremità sono unite da una corda, il che la rende un’arpa sui generis. Rhodri Davies, dal canto suo, lo affianca a livello sonoro per mezzo di un set elettroacustico. Il concerto si sviluppa su due piani: sonoro (appunto) e performativo. L’inizio è quasi solo dedicato all’Arco, che inumidisce l’ambiente mentre utilizza un timbro basso e leggero, ma presto s’inserisce anche l’elettronica più velata di Davies. Poco più avanti “l’arpa” viene abbandonata e una sequenza di azioni su oggetti altri prende il sopravvento; sono quindi metalli, bacchette e altri strumenti alternativi a segnare con un gesto quasi infantile di Eastley la sorte del set, che in questa parte si aggira sul concetto di suono in relazione ad un movimento. Si gioca con delle strutture in ferro percosse con bacchette, oggetti magari privati della loro componente funzionale e riscattati come strumenti, anche per parti minime, ma fondamentali per costruire il puzzle atmosferico mixato poi da Davies. Il raccordo con quest’ultimo ritorna quando lui fa rotolare delle sfere sul palco e gira dei mattoni, rendendo duplice la visione dell’azione in dialogo con l’altro musicista. A questo proposito Davies utilizzerà un’altra arpa – più convenzionale – in modo alternativo. Infatti, grazie a qualche bicchiere di riso, ne pizzicherà le corde facendo cadere i chicchi sopra di esse e lasciando – anche in questo caso – un’importante fetta del lavoro al caso. Questa pioggia di basmati creerà un evidente e concreto rapporto con l’Arco, che per tutto il tempo non smetterà di fremere le sue corde, in un piacevole insieme di note ventose.
Oggi Angelica ci propone una doppia serata, è venerdì e si può far tardi. Ci si concede una pausa nel bellissimo cortile all’aperto, ci si rinfresca e dopo un quarto d’ora si ritorna all’interno del teatro, dove lo stesso San Leonardo, scolpito su un lato, guarda il palco.
Nella seconda sezione di stasera, soprano (Regula Konrad), tromba (Stephen Altoft), percussioni (Lee Ferguson) e violoncello (Stefan Thut) incontreranno l’incantevole mondo lowercase di Jürg Frey. Questo è di sicuro il più aulico degli eventi proposti da Angelica. Il quartetto sul palco si presenta formale ed elegante: il compositore si trova al mixer e alla parte elettronica, e quando il concerto inizia, il silenzio si fa ineguagliabile, anche da parte degli strumenti. Tutto è sospeso, come se si trattenesse il fiato. Non esiste una continuità, l’unica suite è composta da spezzoni accennati, note singole e di inimitabile delicatezza. La fragilità che gli strumenti emettono è quasi paurosa, piccoli soffi dentro la tromba, il violoncello appena accarezzato e piatti di minimo diametro suonati con archetti pongono le sottilissime basi sulle quali Regula Konrad recita in sussurri lirici i suoi versi: “Pietra, lucciole fogliame. Fogliame, morte, felicità, vento”. Accenni, fulmini, e piccolissime quantità di musica si intersecano in un puzzle di stenti che si autocompleta nel suo non evolversi. Verso metà dell’esecuzione i volumi si alzano, ma solo per un istante, come per ricordarci quanto si può modificare la percezione di uno strumento. Per un’ora il teatro San Leonardo trasforma la sua pietra in porcellana e, candido come gli stessi musicisti, leggermente si chiude nel silenzio più assoluto.
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