Ci siamo mai chiesti quali sia il vero meccanismo che si nasconde dietro credenze, pregiudizi e opinioni condivise? Quali sono le dinamiche perverse che si nascondo dietro le dicerie (capaci di sedimentarsi in secoli di storia distorta e manipolata)?
Spesso ad alimentare stereotipi e frammentazione sociale, gli stessi uomini di Governo. Esponenti di spicco, intellettuali o semplici politicanti che, con naturalezza, lasciano passare messaggi tendenziosi e alterati. Sono questi i meccanismi che nel corso della storia hanno prodotto veri e propri mostri collettivi in grado di frantumare l’Italia intera, un’Italia che noi meridionali non abbiamo mai voluto e non abbiamo mai sentito nostra per davvero.
Come possiamo sperare che Napoli smetta di essere guardata con sospetto se gli stessi uomini che dovrebbero governarla ne parlano come si parla di un paese di Guerra? Emblematiche le ultime dichiarazioni di Angelino Alfano, ministro degli interni, che in un’intervista per LaStampa.it ha definito Napoli una “trincea difficilissima”. Che la nostra città non sia una città facile è innegabile, così come innegabile è la presenza massiccia e radicata della criminalità. Ogni metropoli è pericolosa, ogni metropoli deve fare i conti con la periferia difficile ed emarginata, con i disagi sociali, con i problemi delle classi deboli!
Non solo Napoli, non solo Palermo. Ma anche Roma e Milano, con le loro periferie da trincea. Con la loro criminalità che parla solo con un accento diverso. Eppure quando si parla di Napoli ognuno si sente autorizzato ad andare un po’ più in là, a spingersi un po’ oltre il consentito. È dall’inizio che l’intervista parte male, lo stesso giornalista Guido Ruotolo sdogana una certa visione della città con l’affermazione «Napoli continua a essere una miscela pericolosa in cui rischia di prendere il sopravvento la cultura della illegalità, della criminalità a cui segue la risposta di Alfano: «Napoli è una trincea difficilissima che noi guardiamo con molta attenzione. Siamo impegnati al massimo nell’attività di prevenzione e repressione, convinti che ben presto i risultati non mancheranno».
Il discorso continua con un appunto del giornalista sul termine “repressione” ( arma dimostratasi fallimentare in svariate occasioni quando si ha a che fare con i disagi sociali) e alla domanda : «Ministro Alfano è chiaro che lei risponde come responsabile dell’ordine e della sicurezza pubblica. Ma davvero crede che la repressione risolva il problema di Napoli? “ il ministro degli interni risponde: «So bene che pensarlo sarebbe una illusione. Napoli, come intere zone del Sud, ha bisogno di un lavoro in profondità che parta dalle scuole e faccia avvicinare la gente allo Stato – che non può essere visto come un nemico – e alle sue regole».
Frase simili ne abbiamo sentite a milioni. C’è sempre qualcuno che ad un certo punto tira fuori la storia della Napoli selvaggia incline alla ribellione, ma nessuno sembra essersi mai posto la domanda giusta. Perché Napoli non crede nello Stato? In cosa lo Stato ha evidentemente fallito?
È possibile continuare a sentirsi figli di uno Sttato che alla domanda «Ma intanto bisogna dare risposte chiare e rapide sulle responsabilità dell’altra notte» risponde «Quei carabinieri, nonostante fosse da tre ore finito il turno di lavoro, erano impegnati nella ricerca di un latitante»?