di Antonio Romagnoli
Regia: Francesco Munzi
Cast: Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Anna Ferruzzo,
Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova
2014 - FRA/ITA - Drammatico - 103 min
Garibaldi, l’eroe dei due mondi, uno dei grandi uomini che rappresenta, per storia e iconografia, lo stato italiano, rimase ferito tra le montagne dell’Aspromonte. Luogo che non è scelto casualmente, dal momento in cui in un film come “Anime Nere”, che narra di come la “n’drangheta” provenga da quelle montagne – interessante anche la morfologia della parola composta aspro/monte-, si ripone l’intento di descrivere e circoscrivere sua maestà “l’anti-stato”.
Francesco Munzi, al suo terzo lungometraggio, tenta un’operazione estremamente complessa, adattando per il grande schermo il romanzo – omonimo al titolo del film – di Gioacchino Criaco. I protagonisti sono tre fratelli, figli di un pastore assassinato proprio tra quelle montagne.
Parlare di mafia, si sa, senza cadere in inutili luoghi comuni, è estremamente complesso; farlo esclusivamente per immagini, inutile dirlo, lo è ancor di più. Ed è qui che “Anime nere” stupisce, andando a rintracciare l’archè del fenomeno criminale tra quei monti, dove la violenza più atavica, immersa in un sistema quasi medievale (la religiosità vista come dogma attraverso le litanie delle donne, o quel tentativo di “matrimonio combinato” tra nipoti delle due famiglie), dà paradossalmente vita al “successo” dei traffici nazionali ed internazionali che la n’drangheta opera ed amplia giorno dopo giorno (basti pensare ai calabresi che portano, da Milano, una grossa quantità d’hashish in Calabria). Entra quindi in gioco l’elemento dell’ineluttabile – si trovano molti paralleli col recente “Out of the furnace”, che racconta dinamiche simili ambientate nell’entroterra statunitense -, che fa perdere ogni speranza ad un osservatore attento, tanto nei confronti della situazione in sé quanto nei confronti di tutta la retorica, inutile e stucchevole, che si continua a fare attorno al fenomeno. Di classe la scelta di lasciare lo stato impotente e fuori dai giochi, con i carabinieri spesso messi al lato delle inquadrature o sfocati sullo sfondo. La regia, sopraffina e mai pomposa o autoreferenziale, s’accompagna ad una fotografia perfetta ed alle musiche che ne restituiscono pienamente gli intenti. I dialoghi, minimalisti e secchi, ancor di più lasciano metabolizzare l’impossibilità d’agire nel bene – laddove il bene non è contemplato come opzione – attraverso una costruzione drammatica volutamente rallentata e pensata (andando contro questa strana moda della “velocità” che il cinema contemporaneo, inspiegabilmente, esige in ogni suo prodotto).
Violenza che genera violenza, morte che genera morte, e quella catena montuosa che sembra impermeabile alla vita. Luciano, unico personaggio che prova a uscirne, diventa al contempo emblema, vittima e carnefice dell’impossibilità dei suoi stessi intenti. Il risultato, inutile girarci attorno, sfiora il capolavoro.
Antonio Romagnoli
Magazine Cinema
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