Presentato, in Concorso, alla 71ma Mostra Internazionale d’ Arte Cinematografica di Venezia (dove ha conseguito una serie di rilevanti riconoscimenti collaterali, come il Premio Pasinetti al miglior film attribuito dal SNGCI), Anime nere, ispirato all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino Editore, 2008), rappresenta una conferma della valenza registica del suo autore, Francesco Munzi, dopo le buone prove offerte con Saimir (2004) e Il resto della notte (2008). Il regista romano ha infatti messo in scena una mirabile confluenza fra la struttura tipica di un noir (in primo luogo la correlazione territorio-personaggi) e gli stilemi propri tanto della tragedia che quelli, particolarmente vividi e pregnanti, rientranti nella nostra migliore tradizione neorealista (la mescolanza fra attori professionisti ed altri “presi dalla strada” come si diceva un tempo, l’uso del dialetto locale, con ricorso ai sottotitoli), dando vita così ad una narrazione dai ritmi ponderati e classicamente scanditi, idonea ad introdurre gradualmente i personaggi e le situazioni in cui si trovano coinvolti, fino ad arrivare all’imprevedibile e tragico finale, agghiacciante e catartico, dalla forte valenza simbolica.
Marco Leonardi
La sceneggiatura, opera dello stesso Munzi, coadiuvato da Fabrizio Ruggirello (recentemente scomparso, il film è dedicato a lui) e Maurizio Braucci, cui ha collaborato anche Criaco, delinea infatti una netta contrapposizione tra diverse possibili realtà, sia all’interno di una stessa regione, la Calabria, proscenio naturale valorizzato ulteriormente dalla fotografia di Vladan Radovic, dai toni taglienti e cupi, ravvivati ogni tanto da qualche sprazzo di luce, sia, in senso più universale, al di fuori di essa, portando avanti l’idea di un incontro/scontro fra una cultura “antica”, capace ancora di attingere e trarre forza vitale dalle proprie tradizioni più intime e profonde, e l’altra, “moderna”, che vede nel denaro, nella forza del suo potere attrattivo, non importano le modalità illecite con cui viene acquisito, il principale valore di riferimento. La narrazione prende il via con un’apertura ad Amsterdam, dove Luigi (Marco Leonardi) è alla prese con la gestione di un traffico di droga dalla portata internazionale, i cui proventi andranno a finanziare l’attività industriale del fratello Rocco (Peppino Mazzotta) in quel di Milano, città in cui ha messo su famiglia, la moglie Valeria (Barbora Bobulova) ed una bambina.
Giuseppe Fumo e Fabrizio Ferracane
Sono originari di Africo, Calabria, piccolo paese aspromontano dove risiede un terzo fratello, Luciano (Fabrizio Ferracane), pastore e agricoltore, un passato difficile da dimenticare e un legame con la sua terra dai contorni quasi mistici, fra amore e rassegnazione. Non è certo intenzionato a seguire le orme paterne il figlio Leo (Giuseppe Fumo), che invece ha il suo punto di riferimento in zio Luigi. Sarà proprio un gesto sconsiderato del ragazzo, spinto da parole che risuonano nella sua testa come un antica litania (“rispetto”, in primo luogo), a scatenare una serie di eventi che riporteranno nei luoghi natali Rocco e Luigi, fino ad arrivare ad un definitivo regolamento di conti senza vincitori né vinti, ma una drastica alternativa radicata in un disperato e personale senso di giustizia, tanto forte da sfuggire ad ogni possibile inquadramento sociale o istituzionale. Munzi si fa tutt’uno con la macchina da presa, che diviene un bisturi affilato, idoneo ad incidere con attente inquadrature di volti e paesaggi, una realtà vista, con un raro trasporto antropologico, come una sorta di “non luogo” o comunque un mondo a parte, arcadico microcosmo, dove le istituzioni sono sì presenti riguardo il controllo del territorio ma sempre distanti da un’effettiva percezione del suo modus vivendi.
Giuseppe Fumo, Aurora Quattrocchi e Peppino Mazzotta
L’integrazione al riguardo non è quindi mai effettiva, anzi viene connotata, anche storicamente, come un qualcosa di imposto dall’esterno (non a caso, almeno questa è stata la mia impressione, i rappresentanti delle Forze dell’Ordine sono inquadrati sullo sfondo o appaiono come sfocati nelle inquadrature), in nome di un malcelato e reciproco complesso da “riserva indiana” (evidente anche nel romanzo d’origine), che ha sempre visto una contrapposizione fra diverse culture ed una conseguente mancata integrazione in nome di un vicendevole orgoglio, col quale scendere a patti solo nell’eventualità di opportune connivenze. Il paese di Africo che si staglia sulla montagna, contornato da un cielo plumbeo, diviene allora simbolo delle conseguenze derivanti da un mancato dialogo, negli anni forse volutamente irrisolto, al cui interno lo Stato-Istituzione non è mai riuscito a farsi comunità: la scuola in stato di abbandono e scenario di tragiche vicende, la religione fondata più su ataviche usanze e credenze dal sentore magico (la polvere della chiesa usata da Luciano come medicina, le geremiadi delle donne al funerale) che in vacui richiami evangelici risuonanti dal pulpito in occasione di eventi luttuosi.
Supportato da una più che valida resa attoriale complessiva (Mazzotta su tutti, glaciale stratega, ma sono certo indimenticabili anche gli sguardi di Ferracane, ora soppesati, ora furenti, dal tono implosivo, visto che il suo personaggio “parla” soprattutto tramite i silenzi, o la dolente accettazione dello stato delle cose da parte di Valeria/Barbora Bobulova), che Munzi valorizza ricorrendo ad accattivanti primi piani dall’intenso richiamo pittorico (come quelli rivolti ad Aurora Quattrocchi, che interpreta la madre dei tre fratelli), diretto con un stile asciutto e documentaristico ma sempre idoneo a catalizzare l’attenzione, Anime nere è un film certo da vedere e anche necessario per il nostro cinema.In prima analisi, infatti, riscopre in tal guisa la voglia di sperimentare, adattando i generi ad una visione delle cose del tutto personale, e poi offre agli spettatori la possibilità di un’affascinante meditazione sulle sempre vive potenzialità, proprie del grande schermo, idonee a visualizzare una particolare confluenza fra reale e afflati simbolici, dalla valenza onirica (la sequenza finale, sospesa nel tempo e nello spazio, immagine cristallizzata di un indomito retaggio ancestrale).
Grazie, Francesco.
Le foto a corredo dell’articolo, tratte da Movieplayer, sono opera di Francesca Casciarri