Pur ponendosi quindi sulla soglia di quel filone di film che trattano la criminalità organizzata del Meridione d’Italia, Anime nere non parla di eroi in senso canonico, ma anti-eroi tragici, i cui legami di sangue e opposizioni caratteriali sembrano presi in prestito da una tragedia di Euripide. Stiamo parlando di fratelli, figli e nipoti dalla forte tempra interiore, restii al dialogo, propensi al silenzio, in equilibrio instabile su colpe e morti di un passato da vendicare, prima o poi, al presente.
Anime nere, primo film italiano in concorso a Venezia 71, ha aperto egregiamente la strada agli altrettanto pregevoli Hungry Hearts di Saverio Costanzo e Il giovane favoloso di Mario Martone. Anime nere è un film teso, palpitante, che ci avvolge e imprigiona in una cortina di denso fumo nerissimo. La tensione cresce, graduale e inesorabile, frutto di una scelta di regia importante, che da molti può essere etichettata come “anonima autorialità”. Perché la regia può attuarsi in due modi: originali e spesso virtuosistici movimenti della macchina da presa o perfetta orchestrazione delle parti (attori, fotografia, sceneggiatura, ecc.) che la mdp si “limita” a “osservare”. Francesco Munzi sceglie la seconda opzione e sceglie bene. Perché il noir, che in questo caso è più un mood generale che non un senso d’appartenenza al genere, è affiatamento e credibilità di personaggi e situazioni. Anime nere ha una sceneggiatura di ferro, i volti giusti, gli sguardi giusti e un’atmosfera corvina e limpida da non lasciare scampo al nostro coinvolgimento.
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