Faenza rilegge Edith Bruck. Una (ri)nascita e un anelito di speranza
Tratto dal romanzo Quanta stella c’è nel cielo, scritto dall’ungherese Edith Bruck, Anita B. (la B. è stata aggiunta dal regista Faenza per omaggiare la scrittrice) cerca di raccontare “la vita dopo la morte” e l’affresco disegnato da Faenza (e dai suoi collaboratori) convince. Tuttavia il fiabesco impianto narrativo è eccessivamente marcato. E stona.
Anita è una ragazza ungherese scampata ad Auschwitz che viene accolta a Praga dalla zia Monika, dal marito Aron e dal fratello (di lui) Eli. Nonostante sia di famiglia, Anita viene ospitata con preoccupazione, sia per le “attenzioni” indesiderate che può causare alla famiglia (l’Unione Sovietica non vedeva di buon occhio gli ebrei), sia per il suo interesse a rivangare l’esperienza del campo di concentramento, dove ha perso il padre e la madre.
Non è un film sulla shoah. È ambientato nel 1945, la vicenda si svolge nella Cecoslovacchia appena liberata, ma Anita B. è una pellicola sulla rinascita, sull’amore, sul passato e sull’affermazione della propria identità. È questo l’argomento del nuovo film diretto da Faenza, un regista che esprime meglio se stesso al di fuori dell’Italia e che si circonda di validi professionisti (Catinari alla fotografia, Fiocchi al montaggio, Anna Lombardi ai costumi e Buonvino alla colonna sonora), che tagliano e cuciono mirabilmente la sua pellicola. Difatti l’opera di Faenza trova sfogo nell’apparato tecnico, ma non nella costruzione narrativa, che ostenta ed esibisce simbolismi e metafore, trascinandosi appresso il passato, pur cercando di lasciarlo “fuori dalla porta”. Di conseguenza il campo di concentramento diviene un sottotema, ma palpita in modo incontrovertibile sotto la storia d’amore tra Anita e Eli, un rapporto respingente, ambiguo, contraddittorio e teso. È questa la storia che vuole raccontare Faenza e, tra un bacio forzato e l’altro, si fa largo il sussidiario yiddish sciorinato da zio Jacob (interpretato da Moni Ovadia), qualche manifestazione di festosa aggregazione e un anelito di speranza verso la Palestina e un futuro migliore.
Tuttavia se tanti sono i temi, l’impressione di fondo è di osservare una pellicola che sussurra all’orecchio dello spettatore, che mette in mostra una sceneggiatura “monca”, caratterizzata da troppi dialoghi piatti e inconcludenti e da un impianto fiabesco marcato; una stucchevole e poco convincente lettura interpretativa. Infatti Faenza non mostra guizzi autoriali, non lascia segni indelebili e dedica ai due protagonisti (i bravissimi Robert Sheenan e Eline Powell) uno sguardo tenero, quasi paterno, ma decisamente fuorviante. Perché pur essendo una pellicola che parla di rinascita e di futuro, la Seconda Guerra Mondiale si è appena conclusa e un fardello così, umanamente, pesante non può essere cancellato con una vigorosa e impalpabile passata di straccio.
Faenza prosegue con il suo cinema fatto di omaggi a donne private di un’identità personale, tese alla sopravvivenza e alla dimostrazione delle proprie capacità di resistenza. Anita B. ne è un fulgido esempio, ma la pellicola omonima marca eccessivamente il lato della storia più surreale, più dolciastro. E il risultato è una pellicola che rimane perennemente a metà strada, tra amore e paura, tra passato e futuro.
Uscita al cinema: 16 gennaio 2014
Voto: **1/2