Anita B

Creato il 19 gennaio 2014 da Veripaccheri
Anita B
di Roberto Faenza
con Eline Powell, Robert Sheehan, Andrea Osvart, Antonio Cupo, Nico Mirallegro
Italia, 2013
genere, drammatico
durata, 88
 
Anita B. “non è un altro film sull'Olocausto ma sulla memoria” come sottolinea il regista Roberto Faenza. Tratto dal libro “Quanta stella c'è nel cielo” di Edith Bruck e scritto in collaborazione con Nelo Risi, il film, uscito in pochissime sale italiane il 16 gennaio, nonostante racconti la tragicità dell'esperienza dei campi di sterminio da una prospettiva diversa rispetto a quella usuale, ha già suscitato polemiche. Già la scelta della locandina, alquanto provocatoria, accusa quel tacito tentativo di rimozione della memoria di taluni fatti che contraddistinguerebbe il nostro Paese. E proprio sul tentativo di rimozione si costruisce la trama del film. La protagonista, una giovane ragazza sfuggita ad Auschwitz, non vuole e non può dimenticare l'inferno che ha attraversato anche quando viene accolta a Praga a casa della zia Monika che le impone di non raccontare a nessuno dei campi. Se Anita ha vissuto in prima persona l'esperienza della deportazione, anche gli altri personaggi hanno, ognuno a suo modo, sofferto un dolore che vogliono dimenticare. Dimenticare diventa l'unico modo per continuare a vivere per la zia Monika, per suo marito e per suo cognato Eli. E la rimozione è tanto profonda da indurli a nascondere anche di essere ebrei, a rinnegare la propria natura. Anita che dentro il campo di concentramento ha attraversato non solo il dolore ma anche la morte oltrepassandola non accetta di dimenticare, di fingere. Ricordare le sembra il primo e unico modo di reagire. E si ostina perciò ad affidare le sue storie anche a un bambino, troppo piccolo per capire, o alle pagine di un diario. Ha un immenso bisogno di raccontare, di condividere la sua esperienza e soprattutto la sua sofferenza, quasi che questa potesse essere un monito per chi finge di non sapere o un modo per espiare il senso di colpa che inevitebilmente accompagna ogni sopravvissuto. È un'umanità dolente quella che circonda Anita, fatta di persone che vogliono ricominciare a vivere e che si trovano però a fare i conti con quel destino di sopravvisuti reso amaro e doloroso da un senso di colpa che corrode e dal quale è impossibile liberarsi definitivamente. Così come diventa impossibile, nonostante gli sforzi, dimenticare il passato che continua ad abitare il presente, ad occuparlo fino ad estendere la sua ombra possente sul futuro. Ed è proprio al passato che Anita rivolgerà le speranze future, completando così il suo percorso. Quello che sottende alla protagonista è infatti un romanzo di formazione che tuttavia non appare sviluppato del tutto. Il personaggio rimane a tratti non ben definito, come indefiniti rimangono i contorni tra le diverse immagini del film, tra le figure che a vario titolo intervengono nella vita di Anita.

 

I temi che l'intreccio tenta di sviluppare sono molteplici e forti: l'elaborazione di un lutto impossibile da dimenticare, il ricordo di una tragedia che condiziona le vite di chi ad essa sopravvive, l'impossibilità di fare il male dopo averlo ricevuto. Forse però proprio l'aver lavorato su diversi filoni di narrazione non ha permesso di svilupparne nessuno con una profondità tale da rendere il film significativo e realmente “innovativo”. Il rischio di cadere nella banalità era alto e a tratti effettivamente vi cade. Sarebbe forse stato sufficiente scegliere di sviscerare un solo tema. Sarebbe stato molto interessante lavorare sul contrasto tra due diversi modi di sopravvivere alla tragedia. Quello di chi cerca di ricominciare a vivere dimenticandola, fingendo che non sia accaduto niente, e quello di chi invece nel ricordo individua il primo e unico modo di reagire. Il primo è l'atteggiamento scelto dalla zia Monika, l'altro quello di Anita che non vuole e non può accettare di essere una “ragazza senza storia”. Rimane comunque lodevole il tentativo di Faenza di guardare all'olocausto con un punto di vista diverso dal solito, puntando l'obiettivo non sulla tragedia in sé, ma sugli effetti che questa produce, sulla sofferenza che provoca e sull'insegnamento che lascia in chi è capace di accoglierlo.
di Aretina Bellizzi

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