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Anita e la cena del venerdì.

Da Bibolotty
Anita e la cena del venerdì.
Arrivata al quarto piano, ansimavo già in modo preoccupante.
Abitare in centro è una fortuna, avere una casa con terrazza poi può anche salvare la vita, ma arrivare da lui mi pesava ogni volta di più. E gli dovevo anche portare la spesa.
Quei gradini infernali non finivano mai, e dopo le quattro rampe basse dei piani padronali, me ne sarebbero toccate altre due, strette e dissestate, mortali.
«Anita? Il latte... ne hai presi due litri?» mi aveva sentita che ero ancora a metà della penultima rampa.
«Fammi almeno arrivare!» gli rispondevo ogni volta, prima di riprendere a salire e misurare il fiato e il battito cardiaco.
Ero decisa a dirglielo, quella sera non avrei fatto finta di niente per riportarmi al piano terra tutto quel tremore, quella passione irrazionale e stolta.
M’innamorai di Emilio immediatamente, appena misi piede in scena, al primo provino che tenne a Prato. Capii che era l’uomo per me quando mi urlò che ero una cagna, e mi mollò un ceffone in piena faccia, –ovviamente era una prova, solo un modo rapido per farmi centrare la parte-.
Mi baciò la sera stessa, sotto il pergolato di glicine di una trattoria fuori porta.
«Anita! Vieni qui, dammi un bacio!» mi urlò dalla cucina.
La sua voce era calda e morbida come una “vellutata” di asparagi e funghi. Io sorrisi, lo facevo sempre, compiaciuta come una bambina alla carezza del padre.
Emilio e io avevamo deciso così una sera, in camerino, lui con il cerone già in faccia e io che mettevo la matita sugli occhi. Io e il mio maestro, regista e attore preferito, saremmo stati - così mi disse attraverso lo specchio e il trucco- solo e soltanto amici. Poi mi palpò il sedere ridendo, una consuetudine antica tra attori, abituati come siamo, e anche inclini, a una certa promiscuità e confusione di sentimenti.
Io lì per lì non ci feci caso, non volli dare troppo peso alle sue parole, e poi mi sentivo forte del fatto che era un uomo, che alla fine avrebbe ceduto alla voglia o alla semplice curiosità.
Sempre quella sera ci baciammo a lungo, in quinta, ma anche quello faceva parte del rito scaramantico della recita. Niente di più.
Il suo odore aveva impregnato ogni cosa, in quarant’anni ogni oggetto, libro, mobile o stoffa sapevano di Emilio, che a sua volta sapeva di legno, borotalco, tabasco, cuoio, chiodi di garofano e timo.
Mi urlò –sempre appoggiando la voce-, di legare i capelli e, disposti i cibi su due file ordinate, mi guardò in silenzio.
«Stai bene stella! Sei proprio bella!» e prese a tirar fuori i tegami.
La serata iniziava sempre così.
E mi sembrò ancora più bello. Lo guardavo da ogni punto di vista e trasparenza, e mi domandavo dove fossero finiti tutti i suoi anni, le migliaia di sigarette e le ore di sesso sfrenato spese con tutte tranne che con me.
Eppure, nonostante quel taglio sempre aperto sul quale Emilio metteva quotidianamente del sale, io non mancavo mai un appuntamento.
Emilio era, nella mia esistenza, il retrogusto ben nascosto che salta fuori all’improvviso e così, da vent’anni e con qualunque condizione meteo o di salute, l’ultimo venerdì del mese cenavamo assieme, da soli, nella sua casa in Via dei Coronari.
Io, da aiuto cuoco, e in tutto quel darsi da fare, potevo guardarlo senza essere vista, porgergli la forchetta così da sfiorargli le mani, e addirittura cingerlo, per allacciargli il grembiule.
In sottofondo la radio, classica.
Solo dopo un po’ che sminuzzava, tagliava e friggeva, mi raccontava di sé e chiedeva di me, di tanto in tanto, sempre meno con il passare degli anni.
E mondando sedano e cipolla mi dissi che anche quel venerdì stava finendo e da domani avrei dovuto consumare con rapidità le mie giornate, per arrivare al prossimo appuntamento in fretta, il più in fretta possibile. Fra poche ore mi sarebbe toccato mettere il cuore in ghiacciaia o sotto sale, tutto pur di non perdere l’idea di lui, la sua vicinanza in qualche modo e comunque necessaria.
Ma finivo sempre per non dirgli nulla, e le parole, quelle che come un’orazione mi ripetevo ogni volta salendo quelle maledette scale, le dimenticavo all’improvviso, sciolte nell’emozione come farina nel burro, sfrigolanti anche loro nella confusione che genera solo rossore e balbettio.
E poi, un –ti amo da sempre e soffro come una bestia - non avrebbe mai dato l’esatta misura della condizione in cui mi trovavo da tempo.
«Anita, uova!», e gli aprivo le uova lasciando scivolare il tuorlo nell’impasto e sulle sue mani, le stesse che conoscevo a memoria e mi toccavano ogni notte, nonostante lui e i suoi buoni propositi.
«Anita il latte, latte caldo presto!», e mi bruciavo le dita.
«Mescola! Occhio ai grumi» e controllava il lavoro, e sporgendosi sulla spalla mi sfiorava l’orecchio.
Emilio era maschio fino all’eccesso. I movimenti misurati di chi è stato Amleto e Re Lear, Oreste e Giasone.
Emilio mi aveva condannata, relegata nel ruolo privilegiato di amica e sorella e dall’ultima fila del nostro piccolo teatro itinerante, l’avrei guardato esibirsi fino all’ultima replica.
Il forno era acceso. Mancava ancora una spruzzata di noce moscata! Mancavano le tartine e circa quattro ore al nostro arrivederci.
E il mio no, si sarebbe infranto, anche quella sera, contro la stramaledetta speranza che chissà quando, succederà qualcosa.

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