Anita Garibaldi: 10 anni di guerra e d’amore (parte 2)
14 luglio 2014 di Augusto Benemeglio
Garibaldi e Anita – Tela di Guido Mondin
I miei occhi ti scoprono nuda
Anita era alta, scura di pelle, robusta, dal corpo muscoloso e il petto sviluppato, viso ovale un po’ lentigginoso, capelli nerissimi, lunghi fino alla vita e sciolti, fiera e brusca nei movimenti, tanto risoluta nelle azioni di guerra da stupire lo stesso Garibaldi. Aveva gli occhi a mandorla, immensi, che gettavano una luce che poteva essere fiamma di sdegno ( a soli quattordici anni aveva spiaccicato il sigaro sul viso di un carrettiere dallo sguardo troppo insistente e molesto), o torrenti languidi di una calda pioggia di sguardi, come lo furono per il suo Josè, a cui, ( “a prima vista si riconosceva l’amazzone in lei”, dirà Gustav Hoffstetter, uno dei tanti ufficiali stranieri di Garibaldi), probabilmente insegnò a cavalcare (o quantomeno a perfezionare la sua tecnica), in quei primi giorni di intenso innamoramento.
Cavalcavano insieme sulla spiaggia, dove rimanevano per ore e ore, spesso ci dormivano pure e ci facevano l’amore, sulla sabbia. Anita vi era abituata, fin da ragazzina, quando scappava di casa e restava via, col suo cavallo, per giorni e giorni,e alla sera dormiva su quella stessa spiaggia.
“Anita, splendida amazzone, i miei occhi ti scoprono nuda e ti ricoprono di una calda pioggia d’amore. In te canta il vento di prima mattina, e i tuoi seni si fanno arpe profumate. In piena notte il tuo riso è come il fogliame fragoroso dei grandi alberi, e quando scendi dal letto la tua camicia di luna è un lungo strascico azzurro.”
Fu un’estate indimenticabile, giorni e notti di piena e pura sensualità, che proseguirono a bordo del Rio Pardo, la nave su cui Garibaldi aveva issato le proprie insegne di comandante della flotta della Repubblica di Santa Caterina. Ma intanto le truppe e la flotta imperialiste tornavano alla carica, e bisognava difendere la città.
L’amazzone brasiliana
E Anita non si tira indietro. E’ al fianco del suo Josè, partecipa attivamente a varie azioni di guerra in cui rischiano entrambi di perdere la vita, come nello scontro con le navi dell’armata imperiale, nella baia di Imbituba, il 3 novembre 1839, durante la disperata difesa di Laguna. E’ lei stessa che spara la prima cannonata contro la flotta nemica preponderante, è lei che anima colla voce le ciurme sbigottite, è lei che soccorre i feriti, incurante della pioggia di pallottole e di una cannonata che la travolge fra i cadaveri. Ma Anita si rialza e in mezzo a membra e corpi mutilati, vesti e bandiere in fiamme che le intorno nell’aria, imbraccia un fucile e con il suo coraggio e il suo vigore restituisce fiducia ai marinai nascosti sottocoperta, gridando e agitando la sciabola: “ Mais fogo, mais fogo!” E quegli uomini, sentendosi umiliare da una donna, reagiscono, riprendono a combattere, superano le difficoltà del momento. Ma la potenza della flotta imperiale è schiacciante, non c’è possibilità di difesa. Garibaldi la invia a chiedere rinforzi al generale Canabarro, ordinandole di far pervenire la risposta per mezzo di un portaordini. Ma l’amazzone brasiliana è degna di lui, e se ne va, passando sulla laguna alta sulla baia, sprezzante del pericolo, e porta personalmente la risposta, negativa, che convince il corsaro ad affondare le navi, mettendo però in salvo le munizioni, che vengono affidate sempre a lei, sposa-guerriera, la “fanciulla dinamitarda, che nel petto azzurro e nero del ferro esplode come sole ardente, che s’apre come ferita, che parla come un guerriero; a lei, figlia del fuoco, che ha dentro di se lo spirito del fuoco, e l’addensamento del sangue, il vapore rosso, e la preghiera retta che libera e sublima”. Dopo alterne peripezie, Anita partecipa eroicamente all’ultima battaglia navale della Barra, il 15 novembre 1939, trasportando in salvo per dodici volte le munizioni di bordo con una piccola barca, da sola, sotto il fuoco nemico, prima che Garibaldi incendi le sue navi.
La guerra prosegue via terra, con Anita sempre indomita, a cavallo, con la spada sguainata, sottoposta a prove incredibili di resistenza alla fatica, alla sete, alla fame, nutrendosi di sole bacche e radici per giorni e giorni, spronando i compagni di lotta ad andare avanti, a combattere, stanando gli imboscati e i vigliacchi a suon di fucilate. Anita, fiamma e fumo, grano di energia forgiata nel granito dormiente, salamandra, stella caduta nelle foreste del Rio Grande du Sol, è tra i protagonisti della battaglia di Santa Vittoria, del 15 dicembre 1839, in cui 500 repubblicani sconfiggono 2000 imperiali, ma nella battaglia successiva, di Curitibanos, del 18 gennaio 1840, viene fatta prigioniera, ma riesce a fuggire per tornare dal suo Josè, e quando le dicono che è morto, torna sul campo di battaglia, lo cerca tra i cadaveri a lume di una torcia, aggirandosi tutta la notte come una disperata. Lo piange morto, ma Josè è vivo, l’hanno visto combattere a pochi chilometri da lì, e allora lei accorre, è al suo fianco, galoppano ancora insieme e riescono incredibilmente a trovare il tempo anche per l’amore.
“Io marciavo a cavallo con accanto la donna del mio cuore, degna dell’universale ammirazione… E che m’importava il non aver altre vesti che quelle che mi coprivano il corpo, e di servire una povera Repubblica che a nessuno poteva dare un soldo? Io avevo una sciabola e una carabina, che portavo attraversata sul davanti alla sella… La mia Anita era il mio tesoro, non meno fervida di me per la sacrosanta causa dei popoli e per un vita avventurosa… comunque andasse l’avvenire ci sorrideva fortunato, e più selvaggi si presentavano gli spaziosi americani deserti, più dilettevoli e più belli ci parevano”.
(continua…)