Anita Garibaldi: 10 anni di guerra e d’amore (parte 3)
15 luglio 2014 di Augusto Benemeglio
Una scena della Fiction Rai su Anita Garibaldi
Nasce Menotti
Non si fermano neppure quando Anita rimane incinta, anzi l’eroina prosegue a cavalcare, lotta, grida, cade, si rialza, torna in sella e vi rimane fino all’ultimo mese di gravidanza. E’ il 6 settembre 1840 quando nel piccolo villaggio di Mostazas, in una casa di campagna, nasce il loro primogenito, Menotti Domingo, con un’ammaccatura sulla testa, ricordo della caduta da cavallo.
Josè e Anita ora hanno un figlio, ma mancano di tutto, perfino dei pannolini del piccolo, che avvolgono nel fazzoletto che il padre abitualmente porta al collo. Garibaldi va a procurarsi viveri e indumenti adatti al piccolo, ma il primo centro abitato è Settembrina, una località distante qualche centinaio di chilometri. Va sotto la pioggia torrenziale, attraverso campagne inondate, con la volontà disperata di un padre che deve far campare il proprio figlioletto. Anita rimane sola. La casa viene circondata dagli imperiali, ma ella riesce a eludere l’accerchiamento lanciandosi a cavallo, montando a pelo, seminuda e col neonato di soli dodici giorni in braccio appena avvolto nel fazzoletto dell’eroe, rimanendo nascosta nel bosco per quattro giorni al freddo e alla pioggia, alimentandosi con radici e frutti silvestri, mentre lo allatta; finché Garibaldi riesce a rintracciarla. Sono sfiniti. E intorno a loro è uno sfacelo, i soldati sono allo sbando più completo, ubriachi, incapaci di battersi, disertano, rimangono una quarantina di fedelissimi privi di tutto, col morale sotto i tacchi. Ormai non c’è più scopo di continuare la guerra, dice Anita, guardando il bambino. E lui, che aveva pensato di combattere per il popolo contro la tirannia e il malgoverno, ora s’accorgeva che il popolo non stava sempre dalla sua parte, e che non erano solo i suoi avversari a conoscere il malgoverno e la tirannia, lui che aveva sperato che questa fosse una guerra nazionale, secondo il desiderio di Mazzini, ma ora vedeva la nazionalità sperdersi nelle pampas, e che ne era venuta fuori la solita guerra civile dove ci si scanna tra fratelli, e perfino gli italiani si trovavano in entrambi i campi e s’ammazzavano fra di loro, doveva ammettere che sì, Anita aveva ragione. No, non era così facile continuare a pensare a se stesso come a un cavaliere errante, con l’inebriante sensazione di stare dalla parte del giusto, del futuro, del progresso. Garibaldi, pur essendo un sentimentale, un romantico, un don Chisciotte, non poteva ingannasi per lungo tempo. Alla fine, come tutti gli idealisti, restava ferito anche lui dalle lame affilate della dura realtà dei fatti e doveva ammettere che anche questa era una sporca guerra. Nell’aprile del 1841 chiede ed ottiene dal Generale Bento Gonçalves di lasciare l’esercito repubblicano In cambio dei servigi resi alla rivoluzione gli vengono dati 900 capi di bestiame, che lo trasformano in gaucho . Con Anita e il piccolo Menotti, si dirige verso l’Uruguay, dove c’è una forte comunità italiana, e dopo cinquanta giorni avventurosi,con ruberie dei gauchos da lui ingaggiati, le piene del Rio Negro, e le malattie delle bestie, percorrendo più di 600 chilometri, arriva a Montevideo, con le sole pelli di circa duecento animali da cui ricava appena cento scudi necessari per comprare un vestito per Anita e per sè. “Nessun comandante rivoluzionario sudamericano – annota Montanelli – fu pagato così poco”.
Era morbosamente gelosa
A Montevideo, Anita e Josè, regolarizzano la loro posizione, si sposano nella chiesa di San Francesco d’Assisi il 26 marzo 1842, alla morte (presunta) del precedente marito di Anita, il calzolaio Duarte . Intanto avevano affittato una modesta casetta: una cucina dal soffitto basso e annerito dal fumo, due camerette, un terrazzino da cui si vedeva il porto, e un cortile con un pozzo. Era tutto ciò che desiderava Anita, indifferente agli agi e alle ricchezze, abituata ad adattarsi a una vita povera e difficile, ma felice di un’esistenza che le permette di ritrovare ogni giorno l’uomo a cui ha dedicato la vita. Ma lo tiene d’occhio, lo conosce bene, sa che è volubile, seduttore, e soprattutto sempre pronto a lasciarsi sedurre.
Anita ora è solo madre e moglie perduta nel tunnel dell’onice, ma il fuoco della famiglia rimane la sua passione, la sua certosina pazienza, il suo tormento, mentre il corsaro Josè si è trasformato prima in venditore ambulante di casalinghi, con scarso successo, poi in professore di matematica e di storia e geografia nel collegio diretto da un sacerdote d’origine còrsa, padre Paolo Semidei, ma i guadagni continuano ad essere miseri, tant’è che in casa Garibaldi, allietata dalla nascita di un’altra bambina, Rosita, nata nel 1843 (successivamente nasceranno, il 22 febbraio 1845, Teresita e, il 28 marzo 1847, Ricciotti), non ci sono sedie sufficienti e mancano perfino le candele. Anita e Josè hanno un solo vestito, e i bambini si coprono alla meno peggio. Ma Anita, nonostante la povertà e l’isolamento dovuto alla sua rozzezza d’estrazione contadina, all ‘analfabetismo, e al fatto che era una brasiliana di lingua portoghese, è ugualmente felice, e si fa in quattro: fa la madre, la moglie, ma fa anche la sarta, per contribuire al magro bilancio economico.
“Josè, Josè, ora io sono sposa e madre. Non più guerrillera. Nel letto ora siamo in quattro, ma siamo una sola cosa, amore, spiga e fuoco. Un solo sangue ci scorre nelle vene, ed è come un fiume. “.
Un’altra guerra
L’importante è che il suo Josè sia vicino a lei. “Affettuosissima, e con l’ amore devoto di una schiava – scrive di lei Jesse White Mario -, pronta a qualsiasi sacrificio per l’uomo adorato, Anita diventa selvaggia, allorché presa dall’incubo della gelosia. Ella non tollerava rivali e quando sospettava di averne una, si presentava al marito con due pistole in mano, una da scaricare contro di lui, l’altra contro il rivale”. Ora è gelosa di Mary Ausley, la moglie del rappresentante inglese a Montevideo e costringe Josè a tagliarsi barba e capelli, nel tentativo di renderlo meno attraente. Ma il timore suo più grande è di vederlo di nuovo “sposato” alla guerra, e lei, con tre figli piccoli da allevare, non potrà essergli vicino .E la cosa puntualmente, fatalmente si verifica. Tra Uruguay e Argentina, scoppia la guerra dei fiumi, perché si combatterà prevalentemente sul Rio della Plata e sul Parana . E il Capo di Stato uruguaiano, generale Rivera, non dimentica che tra gli oltre cinquemila italiani che sono a Montevideo ( un sesto della popolazione ), nel suo paese c’è anche il famoso corsaro Giuseppe Garibaldi che ha combattuto per la repubblica riograndese. Gli offre il grado di colonnello e il comando della flotta, o meglio di quel che rimane della flotta, che è stata sbaragliata da quella argentina, comandata dal famoso ammiraglio Brown, un irlandese che era stato allievo di Nelson. E il guerriero italiano non può sottrarsi, in nome dei loro comuni ideali, per l’Italia, per l’umanità (il dittatore argentino Rosas è un bieco tiranno, spalleggiato dal traditore uruguaiano, generale Oribe) . In realtà, il Nizzardo non vede l’ora di tornare combattere dopo quei mesi di vita mediocre, dopo quel pantano di monotonia in cui speranza, passione, consapevolezza di sé si spezzettano in umili tentavi di sbarcare il lunario, o vengono soffocate dai piagnistei di un bambino, o di una donna, sia pure la sua moglie ex guerriera. …E poi Montevideo, la città in cui vivre, è sotto assedio, un assedio che durerà oltre otto anni, e che farà parlare Alexander Dumas di “Nuova Troia”, “una lotta che servirà d’esempio alle generazioni venture di tutti i popoli che non vorranno soggiacere alle prepotenze”, e farà assurgere l’eroe biondo italiano a emblema, mito del coraggio e della libertà dei popoli, difensore dei deboli e degli oppressi . Grazie anche all’abile penna del romanziere francese, il personaggio Garibaldi diventerà presto famoso in tutta l’Europa.
In effetti, i resti della flotta uruguaiana fatta a pezzi da Brown sono formati da quattro navi malmesse, e l’impresa appare subito disperata, impossibile, ma sono queste le situazioni che Garibaldi predilige, e ne darà ampia dimostrazione ottenendo l’ammirazione e il rispetto dello stesso ammiraglio Brown e di un giovane ufficiale, Bartolomeo Mitre, che combatteva in campo avverso, e che diverrà prima generale e poi presidente della Repubblica Argentina:
“Lo vidi la prima volta al ritorno dal Rio Grande, dove aveva lasciato una fama romanzesca per il suo coraggio e per la sua elevazione morale. Lo sentii cantare l’inno della Giovine Italia con voce dolce e vibrante. Poi lo rividi in piedi sulla poppa della sua navicella armata, tranquillo, dominatore come il genio della battaglia, e mi sembrò che gli uomini e le imbarcazioni obbedissero all’impulso della sua volontà. E compresi il suo potere d’attrazione in mezzo al pericolo… Garibaldi sotto un’apparenza modesta e pacifica celava un genio ardente e una mente popolata di sogni grandiosi…L’impressione che ne ricevetti fu di una mente e di un cuore non equilibrati fra di loro, di un’anima infiammata da un fuoco sacro, votata alla grandezza e al sacrificio . Ne trassi la persuasione che era un vero eroe in carne e ossa, con un ideale sublime, con teorie di libertà esagerate e mal digerite, in possesso tuttavia di elementi per eseguire grandi cose…”
(continua…)