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Anita Garibaldi: 10 anni di guerra e d’amore (parte 4)

Creato il 16 luglio 2014 da Cultura Salentina

Anita Garibaldi: 10 anni di guerra e d’amore (parte 4)

16 luglio 2014 di Augusto Benemeglio

Anita Garibaldi: 10 anni di guerra e d’amore (parte 4)

La Famiglia Garibaldi (®Wikipedia)

La morte di Rosita

Ci aveva visto giusto. Ma la sorte di Montevideo non è in gioco sul mare, o sui fiumi. La lotta essenziale ha luogo a terra e anche in questo campo Garibaldi, diventerà — anche grazie alla stampa europea e degli Stati Uniti — una figura eroica.

In quel tempo, tutti gli abitanti di Montevideo, assediata, si erano impegnati nella lotta, avevano patito la fame, la sete, la carestia, erano stati colpiti da malattie infettive e soprattutto i più deboli, gli anziani e i bambini erano morti. Tra questi, anche la a piccola Rosita . Aveva a poco più di due anni d’età ed era morta a seguito di un’epidemia di scarlattina. Anita era impazzita di dolore, aveva delirato per giorni e giorni, fino al punto in cui Josè aveva dovuto portarla con sé, in guerra, per starle vicino in qualche modo. Anita ora fa l’infermiera di campo, curai e assiste i feriti, ma continua ad essere in preda a una grande depressione per la scomparsa della piccola Rosita.


Partecipa alla famosa battaglia di San Antonio del Salto dove Garibaldi, con soli 190 uomini, sconfigge 1.500 avversari del generale Oribe . Ma è l’ultima volta. Torna ben presto a occuparsi dei suoi figli nell’umile casetta di Montevideo, oggi divenuta museo, soffrendo privazioni di ogni genere. Nel giugno del 1847 Garibaldi è addirittura nominato comandante generale di tutte le forze di difesa di Montevideo, ma si dimette quasi subito dalla carica e – spinto dalle notizie incoraggianti che arrivano dalla penisola- decide di tornare in Italia, dopo aver rifiutato una grande estensione di terra, con relative case e bestiame, che il Presidente Fruttuoso Rivera gli aveva offerto in dono per i rilevanti servizi prestati a favore della Repubblica d’Uruguay.

Ritorno in Italia

Anita si imbarca qualche mese prima di lui, il 27 dicembre 1847, insieme ai suoi figli Menotti, Teresita e Ricciotti, accompagnata da un giovane ufficiale della Legione Italiana di Montevideo, Medici, e sbarca a Genova. Poi raggiunge Nizza, e va a vivere con la madre di Garibaldi, con cui non avrà un buon rapporto. Donna Rosa è una fervente cattolica praticante, la guarda con sospetto, perché sa del precedente matrimonio della “brasiliana”, e non è del tutto convinta che lei sia vedova. Anita per diversi mesi convive malissimo con quella suocera diffidente e ostile e se non fosse per i bambini se ne tornerebbe in Brasile . Ma aspetta con ansia il suo Josè, che è partito in aprile del 1848 con la nave “Speranza” insieme a 61 legionari italiani . Garibaldi, dopo varie peripezie in un Europa infiammata dalle rivoluzioni ( il 1848 è l’anno delle barricate. Si spara a Parigi, Vienna, Berlino, Amsterdam, Budapest, Bruxelles, Milano, Napoli, Palermo, ovunque si chiede, e si pretende con ogni mezzo la libertà e l’indipendenza), accolto trionfalmente, approda a Nizza il 21 giugno 1848 e ricomincia subito a combattere, inevitabilmente, irrevocabilmente “sposato” alla guerra. Va a Firenze, Bologna, Ravenna, poi sul lago Maggiore, infine viene chiamato a Roma, dove è caduto il Papa e si è instaurata la Repubblica con il triumvirato Mazzini-Saffi- Armellini. Siamo alla fine del quarantotto, e Garibaldi entra a Roma con la sua pittoresca legione fatta di “uomini – scrive lo scultore inglese Gibson – abbronzati dal sole, coi capelli lunghi e arruffati, e i cappelli conici ornati da piume nere e ondeggianti, coi visi allampanati bianchi di polvere e incorniciati da barba incolta, con le gambe nude, che si accalcano intorno al loro capo, che, montato su un cavallo bianco, era perfettamente statuario nella sua bellezza virile”. I garibaldini, dirà Pisacane, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, “sono una massa di briganti “. In effetti nella legione regnano confusione, indisciplina e rissosità, ma quando si tratta di battersi nessuno degli altri contingenti ( i bersaglieri di Luciano Manara, i “borboni” di Pisacane, i “pontifici” di Roselli) lo sa fare meglio delle “camice rosse”.

Garibaldi, afflitto da reumatismi, che lo tormenteranno per tutta la vita, portato a spalla dal suo attendente, il gigantesco negro Aguilar, che va in giro con una lancia dipinta di rosso, viene raggiunto dalla moglie, il 15 marzo 1949 subito dopo la proclamazione ufficiale ndella Repubblica Romana. Anita rimane qualche settimana con il suo Josè, lo assiste, lo cura, lo rianima, ci fa l’amore, e concepisce il quinto figlio, ma quando il generale si riprende le intima di tornare a Nizza, dai figli. E lei stavolta obbedisce. Intanto il corpo dei garibaldini si è allargato, gli uomini, studenti, borghesi, ragazzi giovanissimi provenienti da ogni parte d’Italia, sono arrivati ad essere circa un migliaio.

Ma le cose, a Roma, si complicano. Dopo l’appello di Pio IX alle potenze cattoliche per il ricupero del potere temporale, tutti, Austria, Francia, Spagna, Napoli, il Granducato di Toscana, inviano uomini e armi a Roma . Alla fine se ne conteranno ottantaseimila, ordinati e ben equipaggiati, contro i complesivi circa 20mila volontari degli eserciti della Repubblica, sparsi nel vasto territorio dello Stato Pontificio, per lo più raccogliticci e senza nessuna esperienza di guerra, tranne i veterani di Garibaldi . A Roma ce ne sono circa la metà, compresi i bersaglieri lombardi di Luciano Manara. Siamo uno a otto, o uno a nove, situazioni in cui Garibaldi si è venuto a trovare nel passato, ma ora è diverso. Roma non è Montevideo, e le possibili entrate in città sono infinite, impossibili da presidiare. I primi ad intervenire sono i francesi comandati dal generale Oudinot, che il 30 aprile 1849 sferrano l’attacco verso il Granicolo e Villa Sciarra. Sono più di 30mila uomini muniti di numerose batterie d’artiglieria, un parco d’assedio vasto, e validi reparti del genio. La lotta è dura, feroce, spietata, impari. Ma il solito Garibaldi non molla di un centimetro, ed è l’unico, con le sue leggendarie camice rosse di Montevideo, che riesce a battere i francesi, che nel frattempo si sono impadroniti di Villa Pamphili.

La situazione precipita rapidamente, Mazzini lo chiama, gli chiede un’opinione confidenziale sul da farsi, lui risponde: “ Giacchè mi chiedete ciò che io voglio, ve lo dirò: qui io non posso esistere per il bene della Repubblica che in due modi: o dittatore il limitatissimo, o milite semplice. Scegliete”. E’ evidente che ci sono stati dei contrasti con il Comandante in capo dell’esercito, il generale Roselli,, un romano, ex ufficiale del genio dell’esercito pontificio, che non ha nessuna esperienza di questo tipo di guerra, ma anche con Carlo Pisacane, ex ufficiale borbonico, che non fa mistero del suo disprezzo per gli uomini comandati da Garibaldi. Il dilemma rimane irrisolto. Garibaldi continua a battersi come un leone, con episodi di grande eroismo, ma non gli viene concesso di adottare i suoi metodi da guerrillero sudamericano, (come ad esempio inseguire l’esercito francese in rotta, dopo la prima battaglia sul Gianicolo : “Noi avremmo potuto, profittando della sua debolezza e della sua paura, ricacciarlo in mare”), che lo hanno portato nel passato a combattere e vincere anche in situazioni più disperate di queste. Ma ormai non c’è più nulla da fare, i capisaldi della resistenza, il Vascello, San Pancrazio, Villa Spada, sono caduti, schiacciato da forze infinitamente superiori non ha più scampo, l’unica via che gli rimane è la fuga.

Parte I

Parte II

Parte III


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