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Anita Garibaldi: 10 anni di guerra e d’amore (ultima parte)

Creato il 17 luglio 2014 da Cultura Salentina

Anita Garibaldi: 10 anni di guerra e d’amore (ultima parte)

17 luglio 2014 di Augusto Benemeglio

Anita Garibaldi: 10 anni di guerra e d’amore (ultima parte)

La morte di Anita Garibaldi in una tela di Francesco Fabbri

La morte di Anita
E’ in questa situazione di estremo caos, con i francesi che bombardano Villa Spada, che viene di nuovo raggiunto da Anita. E’ il 26 gugno 1849 e Anita ha viaggiato per mare fino a Livorno, proseguendo per Roma in carrozza, nonostante sia incinta di quattro mesi. Dentro di sé ha deciso che non avrebbe mai più lasciato il marito, unica sua ragione di vita.

E a nulla valgono le insistenze di Josè affinché si metta in salvo, perché Roma sta per essere presa dai francesi . ma lei non lo fa neppure finire di parlare che eccola già vestita da uomo, con in capelli tagliati, in uniforme da ufficiale dei legionari, pronta a partire, insieme a lui, coi volontari garibaldini. Eccola, come ai bei tempi, cavalcare nell’avanguardia, al fianco del suo Josè. Eccola, con l’abituale fierezza di amazzone, gridare il suo disprezzo ai codardi che sbandano per l’attacco di pattuglie austriache alle porte di San Marino, Ma in realtà Anita soffre terribilmente gli infiniti disagi di questa affannosa fuga. Viene colpita da una forte febbre, deperisce, s’indebolisce rapidamente. Ma Garibaldi rifiuta di arrendersi agli austriaci, vuole raggiungere a tutti i costi Venezia, che ancora resiste ( capitolerà il 22 agosto 1849), e supplica Anita di rimanere in quella ospitale terra di rifugio. Tornerà a prenderla quanto prima.

Ma Anita non ne vuole sapere: “Tu vuoi lasciarmi”, gli dice. E’ sola, in terra straniera, di cui parla a mala pena la lingua, non ha più nemmeno il conforto degli amici venuti con lei dall’Uruguay, tutti morti, o in marcia con Garibaldi. I fuggiaschi proseguono la marcia attraverso sentieri poco battuti, qualcuno si ritira, altri si sperdono. Anita è consumata, divorata dalla febbre, soffre la sete, si ristora con un melone, frutto di stagione. A Musano, nella casa parrocchiale, riposa col marito. ( faranno riconsacrare la chiesa, contaminata dal nemico numero uno del papato), arrivano a Cesenatico, porto di pescatori, dove Garibaldi, con Anita, sempre più grave, s’imbarca su un bragozzo per raggiungere Venezia, seguito dagli altri fuggiaschi.

Navigano tutta la giornata, seguendo da lontano la costa. Ma a Goro, a ottanta chilometri da Venezia, la flottiglia dei bragozzi viene avvistata da un brigantino austriaco, che spara due cannonate intimorendo i pescatori. Che si arrendono. Ma prima fanno in tempo a sbarcare i passeggeri non graditi. Garibaldi prende tra le braccia Anita, scende nell’acqua fino all’altezza del petto, e raggiunge la spiaggia percorrendo 400 metri a guado, saluta i compagni, don Bassi, il cappellano dei garibaldini, Giovanni Livraghi, tornato in Italia con lui sulla “Speranza” da Montevideo, Angelo Brunetti, capopopolo romano detto Ciceruacchio, coi figli Luigi e Lorenzo rispettivamente di sedici e tredici anni. Saranno tutti fucilati dagli austriaci.

Rimane con il solo Leggero, al secolo il maddalenino Giovan Battista Coliolo, uno dei reduci di Montevideo, che si mette in contatto con il colonnello Nino Bonnet, i cui fratelli hanno combattuto e sono caduti nella difesa di Roma. Bonnet gli fornisce abiti e lo aiuta nella fuga, una penosa marcia di ore su un terreno difficile. Gli dice che lo può mettere in salvo verso la Toscana e gli impone di separarsi da Anita, che,adagiata su un carro trainato da buoi, sembra ormai agli estremi. Bonnet dà a Garibaldi un suo abito, è sera, viene una barca a prelevarlo, per condurlo attraverso la laguna. Ma Anita si attacca al marito. Non vuole rimanere sola. Garibaldi guarda Bonnet :

“Voi non potete neppure lontanamente immaginare quanti e quali servigi mi abbia reso questa donna…quale e quanta tenerezza ella nutra per me! Io ho verso di lei un immenso debito di riconoscenza e d’amore…Lasciate che mi segua!”.

Ma ormai si è troppo ritardati l’imbarco e tutto si complica. I barcaioli, insospettiti e timorosi della rappresaglia austriaca lasciano i passeggeri a metà strada, ma non li denunziano. Bonnet ottiene la cooperazione dei barcaioli più coraggiosi, si rimettono in moto, dopo cinque ore raggiungono la Chiavica di Mezzo, sull’argine sinistro del Po. E’ mezzogiorno del 4 agosto 1849, e Anita è ormai in agonia. E’ impossibile continuare a trasportarla. Avvisato, accorre, con un biroccio, Battista Manelli, un patriota conosciuto da Garibaldi. Anita viene adagiata su un materasso e dei cuscini. E’ morente. Il biroccino procede lentamente, come un carro funebre, sotto il sole cocente del pomeriggio di agosto. Garibaldi segue Anita a piedi e terge con un fazzoletto una spuma bianca che esce dalle labbra della moglie agonizzante. A sera, alle Mandriole, poco distante da Ravenna, alla fattoria Ravaglia, li attende un medico. In quattro prendono il materasso dagli angoli, trasportano Anita nella camera da letto dei Ravaglia.

“Nel posare la mia donna in letto, scoprii sul suo volto la fisionomia della morte . Le presi il polso…più non batteva! Avevo davanti a me la madre dei miei figli ch’iom tanto amavo ! Cadavere!”

E’ una morte misera, quella di Anita, come misera è stata la sua vita. Muore su un carretto, o su un letto altrui, vestita di panni regalati per carità, muore lontano dalla patria e dalla famiglia. Ha lasciato tutto e tutti, anche i figli, (li ha raccomandandoti al padre negli ultimi momenti di lucidità) per stare fino alla fine vicino al suo uomo, sua sola ragione di vita e l’ unico conforto è stato quello di averlo avuto accanto nei momenti estremi.

Ora il suo Josè piange la sua fanciulla dinamitarda, ed è un pianto senza fine. Anita non si sveglierà più, non aprirà più gli occhi, non si aggirerà più come un sole insonne nella notte nera e bianca in cerca del suo Josè; ora la memoria brucia, è fatta di lacrime salate, è nube, pioggia, neve ardente, ormai i fiumi del suo corpo sono essiccati, i paesaggi nei suoi occhi dissolti, l’acqua e l’aria dei suoi pensieri dissolti. Tutte le cose d’intorno soffrono, anche l’erba e gli insetti ostinati si fermano. E già s’innalzano muri di pietra nella memoria brucia. Ma deve andare, è braccato, non può sostare.

“Poveraccio — diranno i fratelli Ravaglia — era già uscito, quanto rientra, va verso la fredda salma, vi sin getta sopra con tutta l’anima, e si scioglie nuovamente in amarissimo pianto. Le toglie la sopravveste, i sandali, un fazzoletto e un anello e me li porge. No, teneteli voi, generale, è giusto così, diciamo mio fratello ed io. E poi che non può aspettare oltre. Deve andare . E’ sfinito. Mi chiede un tozzo di pane. E mi dice di dare sepoltura cristiana alla salma, che sia portata a Ravenna e le si facciano solenni funerali. Si è scordato che è massone, ed ateo, e che non ha in tasca neppure una moneta per pagare il biroccio che ha portato Anita… La sera stessa di quel giorno, 4 agosto 1849, avvolgemmo la salma in un lenzuolo, scavammo di fretta una fossa poco profonda in un terreno incolto, a circa un chilometro dalla fattoria, e vi deponemmo il cadavere, coprendolo con un po’ di terra.”

Sei giorni dopo una ragazza giocando nei paraggi di quella tomba, vede sporgere dalla sabbia una mano e un avambraccio rosicchiati dalle bestie. Vengono avvertiti i gendarmi, il cadavere è dissotterrato, esaminato e sezionato dal medico legale. Viene riconosciuto per quello della “donna che accompagnava Garibaldi” e sepolto di nuovo in un vero cimitero, grazie alla pietà di un povero parroco locale, don Francesco Bozzacchi, che ricompone i resti di Anita, in avanzata decomposizione, e celebra un funerale religioso.

Nel 1859 le spoglie di Anita sono per volontà di Garibaldi trasportate a Nizza; oggi riposano tumulate nel monumento innalzatole sul Gianicolo il 30 maggio del 1932 e inaugurato da Benito Mussolini con queste parole: “Anita, Madonna laica del nostro Risorgimento, simbolo del coraggio femminile che nessun altra donna italiana seppe eguagliare, conciliò sempre durante la rapida avventurosa sua vita i doveri della madre e della combattente intrepida al fianco di Garibaldi”. Certamente Ana Maria de Jesus Ribeiro possedeva un fascino e un carattere davvero eccezionali per la sua epoca, e forse per ogni epoca. Ma Anita – dice Montanelli – non era Giovanna d’Arco, e non capi mai gli ideali del marito, tuttavia li condivise sempre fino in fondo, fino a morirne, ritenendoli sacrosanti perché tali lui li riteneva . “Anita si sacrificò e morì per suo marito, — scrive Mino Milani, uno dei garibaldinologi più noti — e il suo unico ideale fu la famiglia, o più precisamente l’amore coniugale, e va riconosciuto che si tratta di valori oggi desueti.”

Tu gridi come a un uomo cui sia morta la moglie, come un dio che ha perduto la sua razza — dice don Giovanni Verità a Garibaldi, mentre lo accompagna lungo la strada di Modigliana per l’attraversamento degli Appennini — ma già domani griderai di meno. Perché sarai libero e rivedrai il mare che è stato il tuo primo amico, e sarà anche l’ultimo.

Fu profetico in tutto, questo prete carbonaro. E l’eroe gli donò la cosa più preziosa che avesse: l’anello nuziale di Anita, la più perfetta delle creature.

Parte I

Parte II

Parte III

Parte IV

 


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