La violenta repressione del regime siriano e la determinazione di Assad a non lasciare la presa hanno indotto il governo turco a mutare drasticamente strategia nei confronti del vicino. Dai vani tentativi di mediazione, Ankara è passata alla risposta armata contro i colpi di artiglieria provenienti dal territorio siriano. Le relazioni fra i due paesi sono inoltre rese più difficili sia dal crescente numero di rifugiati che dal ruolo giocato dai curdi siriani.
Nonostante gli allarmismi mediatici e le cannonate al confine, la Turchia e la Siria non sono destinate a farsi la guerra; o almeno, un aperto scontro bellico non è nei programmi del governo turco (o nelle preferenze della popolazione, più volte sondata) né è nell’interesse – tattico o strategico – del regime di Assad che stenta a sopravvivere. La crisi è però un’evidente realtà: bilaterale a causa del disinteresse della comunità internazionale, che non ha risposto alle diverse sollecitazioni di Ankara per la creazione di una no-fly zone; regionale in prospettiva, per il forte coinvolgimento di Russia e Iran e per la proposta, prima egiziana e poi turca, di trattative quadripartite (Egitto, Turchia, Iran e Arabia Saudita) o tripartite (Turchia, Egitto e Iran, oppure Turchia, Russia e Iran) dopo che i sauditi si sono disimpegnati.
La diplomazia turca cerca una via di uscita; lo scambio quotidiano di colpi di artiglieria – con vittime civili ad Akçakale – non è più tollerabile, anche in termini politici, e i rifugiati siriani in Turchia, ormai più di centomila, stanno creando problemi di budget – il vice-premier Ali Babacan ha quantificato la spesa per il 2012 in circa 180 milioni di euro – e di ordine pubblico: impossibilitati, nei campi di accoglienza e in previsione dell’inverno, a condurre una vita normale. In molti – le opposizioni parlamentari, intellettuali e analisti, anche stranieri – hanno contestato l’approccio del ministro degli Esteri Davutoğlu e del primo ministro Erdoğan, che dallo scorso anno, dopo alcuni mesi di febbrili trattative per convincere Assad a scegliere la via delle riforme per sedare la rivolta, lo hanno platealmente scaricato e attaccato in tutti i modi, dai discorsi incendiari al sostegno – non si sa bene fino a che punto armato – dell’Esercito libero siriano e degli oppositori democratici del regime siriano.
Certo, alcune critiche sono sembrate essenzialmente strumentali: Davutoğlu è stato prima attaccato per aver trattato fino all’ultimo con Assad, poi per aver tagliato i ponti; İbrahim Kalın, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e consigliere per la politica estera del premier, difende invece a spada tratta il suo governo: «È stato Assad a fare più volte promesse e a non mantenerle, la Turchia ha agito di conseguenza e sempre nel rispetto del diritto internazionale». Bisogna, infatti, dargliene atto: il governo turco – dopo l’abbattimento di un jet F4 l’estate scorsa e dopo i colpi di mortaio che hanno fatto cinque vittime civili in una città di confine – ha consultato gli alleati della NATO e attivato il Consiglio di sicurezza dell’ONU secondo le procedure previste, ha optato per una risposta armata in autotutela e con assoluta proporzionalità, ha ottenuto dal Parlamento l‘autorizzazione per eventuali operazioni belliche sul suolo siriano, ha spostato mezzi e truppe nell’area calda per aumentare la propria capacità di deterrenza.
Ma cos’è andato storto tra la Turchia e la Siria, il cui rapprochement – fino all’inizio del 2011 – era indicato come il più importante risultato nella politica “degli zero problemi” voluta da Davutoğlu? L’obiettivo era – ed è tuttora – ambizioso: rompere l’isolamento in cui la Turchia si era confinata durante la guerra fredda, mettere in atto una nuova politica attivista per superare il contenzioso con i vicini e per trasformare le proprie periferie ex ottomane – grazie a forme istituzionalizzate di cooperazione politica ed economica – in una cintura di stabilità e di prosperità fondata sulla libera circolazione delle merci e delle persone. Come quella a cui Turchia, Siria, Giordania e Libano avevano cominciato a dar vita con la creazione di un Alto consiglio quadripartito di cooperazione strategica (il Quartetto del Levante), che prevedeva l’abolizione di visti e, in prospettiva, tariffe, consigli dei ministri congiunti, grandi progetti infrastrutturali e la possibile estensione ad altri paesi (come Iraq e Iran). Consiglio che è però finito nel dimenticatoio dopo che le rivolte in Siria hanno scatenato la sanguinosa repressione di Assad. La Turchia ha suggerito riforme fino all’agosto del 2011 (riforme autentiche, per evitare una guerra civile), ma Assad non si è fatto convincere, nonostante un ultimo colloquio con Davutoğlu a Damasco durato sette ore. I leader turchi – Davutoğlu, Erdoğan e il presidente Gül – gli hanno chiesto allora a gran voce di farsi da parte, lo hanno trasformato in nemico da abbattere, lui e il suo regime, perché non più funzionale ai loro progetti.
Ma cos’ha sbagliato la Turchia? Secondo Yaşar Yakış – quaranta anni in diplomazia, membro fondatore dell’AKP e ministro degli Esteri nel governo Gül dal 2002 al 2003, oggi presidente del think tank Stratim e docente a Oxford – gli errori di Ankara sono stati essenzialmente due. In primo luogo, un errore dell’intelligence più che della politica (che dall’intelligence è stata tratta in inganno): «credere che il regime di Assad sarebbe crollato in poco tempo, come avvenuto in Tunisia ed Egitto»; in secondo luogo, ritenere che gli Stati Uniti e i paesi occidentali «sarebbero stati al fianco della Turchia», mentre secondo l’ambasciatore Yakis anche dopo le elezioni del 6 novembre – visto che la popolazione è risolutamente contraria a un nuovo intervento all’estero – Washington manterrà una posizione defilata. Alla domanda su cosa dovrebbe fare la Turchia per gestire la crisi, Yasar Yakis ha risposto che Ankara per il momento può «fare di tutto per allentare la pressione», che dovrebbe in futuro appoggiare un eventuale piano Brahimi – negoziato dall’inviato algerino delle Nazioni Unite per la Siria – «in cui Assad sia parte della soluzione, in cui gli venga riconosciuto un ruolo nel processo di transizione e magari un’uscita di scena onorevole»; del resto, lo stesso Davutoglu ha proposto l’attuale vicepremier siriano Faruq al-Shara come possibile leader di un governo di transizione. Altrimenti, se Assad dovesse rimanere al potere ancora a lungo, «per la Turchia le difficoltà sarebbero enormi».
Ma il governo si trova a dover fare i conti anche con la Russia, che sostiene il regime siriano e «che vuole mantenere una presenza nel Mediterraneo, preferibilmente in Siria in virtù degli stretti rapporti pregressi». Putin non è quindi interessato a fare “da stampella” ad Assad per pura solidarietà (questa l’accusa non troppo velata – ma senza far nomi – di Erdoğan), chiunque gli assicuri che gli interessi russi in Siria siano preservati potrà fargli cambiare posizione. Magari se ne parlerà nella capitale turca il 3 dicembre, quando si svolgerà il vertice bilaterale annullato qualche giorno fa (per motivi organizzativi e non a causa dell’atterraggio forzato dell’aereo russo diretto a Damasco e sospettato di trasportare materiale proibito, come erroneamente riportato sulla stampa: la notizia del rinvio è, infatti, giunta prima dell’intervento dei jet turchi).
C’è poi un’altra complicazione, che in Turchia ha seminato il panico tra i commentatori e nell’opinione pubblica: la questione curda. Con gli accordi di Adana del 1998, infatti, la Siria ha cessato di sostenere – almeno apertamente – il PKK di Abdullah Öcalan (prima espulso e poi arrestato dai servizi segreti di Ankara); ma qualche legame deve essere rimasto attivo e fonti diplomatiche turche accusano la Siria di averli sfruttati per innescare una serie di attacchi – particolarmente violenti, con numerose vittime tra i soldati – la scorsa estate. In più, il riposizionamento strategico delle forze armate di Damasco ha consentito ai gruppi affiliati al PKK – in particolare il PYD, Partiya Yekîtiya Demokrat, un partito che dispone di una milizia armata – di assumere il controllo di vaste fasce di territorio al confine: il timore è quello di un Kurdistan siriano prima autonomo e poi indipendente, magari federato con il Kurdistan iracheno, che potrebbe fare da magnete per le aree orientali della Turchia abitate da curdi, in pratica l’incubo del Grande Kurdistan. Per spegnere sul nascere ogni possibile complicazione, la Turchia si è affidata al presidente della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani, considerato un affidabile partner economico e politico, che ha promosso prima la formazione di un Consiglio nazionale curdo (KNC) per unire i gruppi moderati di curdi siriani e poi – lo scorso luglio – di un Comitato supremo curdo in cui il PYD e il KNC sono rappresentati in modo paritario. L’obiettivo: tenere sotto controllo chi punta troppo in alto e sembra non volersi accontentare dell’autonomia amministrativa nella Siria – si spera democratica – del futuro. Ma la situazione è in costante e imprevedibile evoluzione: solo il futuro stabilirà se la strategia di Ankara è quella giusta.
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