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Anna Banti – “Noi credevamo”, o del tradimento dell’Italia

Creato il 09 ottobre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
image_bookdi Giuseppe Leuzzi. Un uomo che si chiude nella “volontaria ottusità”, per salvarsi dalla “nera disperazione”. Un romanzo claustrofobico, giorno dopo giorno per lunghi anni, nelle prigioni dei Borbone di Napoli: Procida, la galera che commosse Gladstone, Montefusco, il “bagno eccezionale” tra i monti dell’Irpinia, chiuso da tempo perché invivibile e riaperto per loro, Montesarchio. Loro essendo il narratore, Domenico Lopresti, il proprio nonno paterno di Anna Banti, con tanti personaggi di maggior rilievo nella storia nazionale: Carlo Poerio, Sigismondo Castromediano, duca di Cavallino, il barone Nicola Nisco, Michele Pironti. Le “notabilità pericolose”, che il re Borbone temeva e volle all’ergastolo. Che avranno i loro ideali, costati il sacrificio della vita, traditi quando si realizzano. Traditori e tradimento sono gli incubi ricorrenti quasi a ogni pagina, che il sogno della unità trasformano in un incubo.

L’unità d’Italia fu anche il cimitero di molte energie e illusioni, e Anna Banti ne aveva fatto qui una durissima rappresentazione, cinquant’anni fa, a ridosso delle celebrazione dei cent’anni. Il romanzo non fu letto nella giusta maniera – la sola lettura di qualche impegno, di Enzo Siciliano, che qui si ristampa a postfazione, è fuori tema. Si liquidò come una memoria familiare, imputata a ennesima colpa di una scrittrice che, sebbene generosa e pronuba di molti giovani scrittori, con “Paragone” e le tante sue attività, non era amata – per fatti caratteriali, e perché moglie fortunata di Roberto Longhi, quindi oggetto d’invidia. Si riedita dopo la rilettura di Martone,che ne ha fatto un film di successo. È un romanzo fortemente storico. Documentato. Circostanziato. Da annali anche come opera di storia, benché compilativa, talmente è al punto. E come romanzo.

Il vecchio Lopresti “caparbio”, di “tenacia avventurosa”, sempre di poche parole, alla fine si vuole muto. Il medico di casa si ostina a curarlo, ma lui ha deciso di non parlare. Ha scelto di vivere la vecchiaia a Torino, che non ama e non lo ama – “ci disprezzano perché siamo meridionali”, lamenta l’amata figlia. Ha voluto pagare un omaggio alla moglie Marietta, torinese, che ha sposato in un tardo matrimonio e gli è sempre stata amorevole compagna in una vita di pochi agi. Sistemato dai vecchi compagni rivoluzionari di maggior successo dopo  l’unità in un modesto impiego alle dogane. . Nel mutismo, di nascosto, rivede la sua vita di ribelle e ergastolano.

Un esperimento e un esito unici. Il carcere non fa genere, ma niente gli sta al paragone: disincantato, cupo, cattivo anche. “Le mie prigioni” di Pellico sono confortanti al confronto. Sofri, che ha tentato un approccio sulla stessa falsariga, è rimasto abbondantemente al di qua della compattezza ostile, “altra”, diversa e negativa, di questo universo concentrazionario.

Altre trame si intrecciano a quella carceraria È il romanzo anche del Nord e il Sud, ben prima della Lega. Ben più approfondito: l’alterità è di linguaggio e di senso – di “valori”. Della politica buona e di quella cattiva, dell’avidità, degli interessi. Anche nell’universo ristretto del carcere: chi ha fatto domanda di grazia, attraverso quali vie, con qual agganci? Del sospetto perenne, e del tradimento. Dei ricchi e colti e dei poveri ignoranti – come fare a portare l’Italia e la repubblica ai pastori, ai braccianti, inarticolati, instupiditi?

È un romanzo anche “meridionale”, della borghesia meridionale. Il detto del non detto. La vecchia serva che è sorella di latte del padrone di casa. Mentre in carcere si perpetua “il costume delle case signorili del meridione, dove il servo è nutrito con abbondanza ma di cibi grossolani non pensa ad offendersene”. Il rapporto personale che supera ogni ideologia e ogni divisione politica..Mentre la famiglia più spesso non c’è, contrariamente allo stereotipo: è divisa, è trascurata, è risentita. Sottili e robusti soni i dati caratteriali: dello stesso Lopresti, vecchio rancoroso invece che buon padre di famiglia, dei nobili “impegnati”, degli intellettuali, ei mediatori politici, della piccola borghesia delle apparenze, del contadino contegnoso e integro, anche se carcerato, d’intelligenza immediata. Un’altra Italia, un altro Sud. Un romanzo inatteso.

È un romanzo importate più che ambizioso. Il passo ottocentesco della scrittura, che Siciliano rimprovera all’autrice, segue il passo ottocentesco del ripensamento: faticoso, ostruito da tanti ricordi, eventi, entusiasmi, e tuttavia incancellabile. Per un senso di colpa non personale, che fa per questo però più angoscioso il fallimento. E poi è una scrittura che recupera quella di Nievo, il tentativo più riuscito nel secondo Ottocento di liberarsi del compassato Manzoni.

Anna Banti, Noi credevamo, Oscar, pp. 349 € 9,50


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