di Giuseppe Leuzzi. Un uomo che si chiude nella “volontaria ottusità”, per salvarsi dalla “nera disperazione”. Un romanzo claustrofobico, giorno dopo giorno per lunghi anni, nelle prigioni dei Borbone di Napoli: Procida, la galera che commosse Gladstone, Montefusco, il “bagno eccezionale” tra i monti dell’Irpinia, chiuso da tempo perché invivibile e riaperto per loro, Montesarchio. Loro essendo il narratore, Domenico Lopresti, il proprio nonno paterno di Anna Banti, con tanti personaggi di maggior rilievo nella storia nazionale: Carlo Poerio, Sigismondo Castromediano, duca di Cavallino, il barone Nicola Nisco, Michele Pironti. Le “notabilità pericolose”, che il re Borbone temeva e volle all’ergastolo. Che avranno i loro ideali, costati il sacrificio della vita, traditi quando si realizzano. Traditori e tradimento sono gli incubi ricorrenti quasi a ogni pagina, che il sogno della unità trasformano in un incubo.
L’unità d’Italia fu anche il cimitero di molte energie e illusioni, e Anna Banti ne aveva fatto qui una durissima rappresentazione, cinquant’anni fa, a ridosso delle celebrazione dei cent’anni. Il romanzo non fu letto nella giusta maniera – la sola lettura di qualche impegno, di Enzo Siciliano, che qui si ristampa a postfazione, è fuori tema. Si liquidò come una memoria familiare, imputata a ennesima colpa di una scrittrice che, sebbene generosa e pronuba di molti giovani scrittori, con “Paragone” e le tante sue attività, non era amata – per fatti caratteriali, e perché moglie fortunata di Roberto Longhi, quindi oggetto d’invidia. Si riedita dopo la rilettura di Martone,che ne ha fatto un film di successo. È un romanzo fortemente storico. Documentato. Circostanziato. Da annali anche come opera di storia, benché compilativa, talmente è al punto. E come romanzo.
Il vecchio Lopresti “caparbio”, di “tenacia avventurosa”, sempre di poche parole, alla fine si vuole muto. Il medico di casa si ostina a curarlo, ma lui ha deciso di non parlare. Ha scelto di vivere la vecchiaia a Torino, che non ama e non lo ama – “ci disprezzano perché siamo meridionali”, lamenta l’amata figlia. Ha voluto pagare un omaggio alla moglie Marietta, torinese, che ha sposato in un tardo matrimonio e gli è sempre stata amorevole compagna in una vita di pochi agi. Sistemato dai vecchi compagni rivoluzionari di maggior successo dopo l’unità in un modesto impiego alle dogane. . Nel mutismo, di nascosto, rivede la sua vita di ribelle e ergastolano.
Un esperimento e un esito unici. Il carcere non fa genere, ma niente gli sta al paragone: disincantato, cupo, cattivo anche. “Le mie prigioni” di Pellico sono confortanti al confronto. Sofri, che ha tentato un approccio sulla stessa falsariga, è rimasto abbondantemente al di qua della compattezza ostile, “altra”, diversa e negativa, di questo universo concentrazionario.
Altre trame si intrecciano a quella carceraria È il romanzo anche del Nord e il Sud, ben prima della Lega. Ben più approfondito: l’alterità è di linguaggio e di senso – di “valori”. Della politica buona e di quella cattiva, dell’avidità, degli interessi. Anche nell’universo ristretto del carcere: chi ha fatto domanda di grazia, attraverso quali vie, con qual agganci? Del sospetto perenne, e del tradimento. Dei ricchi e colti e dei poveri ignoranti – come fare a portare l’Italia e la repubblica ai pastori, ai braccianti, inarticolati, instupiditi?
È un romanzo anche “meridionale”, della borghesia meridionale. Il detto del non detto. La vecchia serva che è sorella di latte del padrone di casa. Mentre in carcere si perpetua “il costume delle case signorili del meridione, dove il servo è nutrito con abbondanza ma di cibi grossolani non pensa ad offendersene”. Il rapporto personale che supera ogni ideologia e ogni divisione politica..Mentre la famiglia più spesso non c’è, contrariamente allo stereotipo: è divisa, è trascurata, è risentita. Sottili e robusti soni i dati caratteriali: dello stesso Lopresti, vecchio rancoroso invece che buon padre di famiglia, dei nobili “impegnati”, degli intellettuali, ei mediatori politici, della piccola borghesia delle apparenze, del contadino contegnoso e integro, anche se carcerato, d’intelligenza immediata. Un’altra Italia, un altro Sud. Un romanzo inatteso.
È un romanzo importate più che ambizioso. Il passo ottocentesco della scrittura, che Siciliano rimprovera all’autrice, segue il passo ottocentesco del ripensamento: faticoso, ostruito da tanti ricordi, eventi, entusiasmi, e tuttavia incancellabile. Per un senso di colpa non personale, che fa per questo però più angoscioso il fallimento. E poi è una scrittura che recupera quella di Nievo, il tentativo più riuscito nel secondo Ottocento di liberarsi del compassato Manzoni.
Anna Banti, Noi credevamo, Oscar, pp. 349 € 9,50