Anno 2000, quello del millennium bug, che poi finì per essere un colossale flop mediatico. È però anche l’anno in cui una misteriosa Anna Gardeck pubblica Bondage Woman, un disco con le stigmate, destinato a rimanere nell’hall of fame del genere industrial-noise. L’artista austriaca (?) è però avvolta da un alone di mistero, non solo perché è difficile trovare sue notizie in giro (qualcuno potrebbe perfino pensare che non esista), ma perché questo è l’unico lavoro finora realizzato. Sì, lo so, è possibile trovare il suo nome – assieme a quello di Sven Bussler (ovverosia mister Wappenbund) – fra i credits dei due capitoli Wiener Aktivisten, ma Anna Gardeck sarà sempre ricordata per questo disco, già alla quarta ristampa (per White Ashes, la prima e ultima label ad averlo pubblicato, anch’essa vicina a Bussler): veste grafica quasi simile alla precedente, nessuna traccia bonus ma identico voyeurismo sonoro, fatto d’attillati corsetti viola, ambigue maschere, lacci neri plastificati, asfissianti bavagli e – ovviamente – tanto latex, o forse sarebbe meglio dire animallattice, come il titolo dell’ipnotico brano industrial del 1987.
Apre “Rubber Rituals I”, una sorta di malizioso preambolo erotico. Anticipa l’atto sessuale con scariche temporalesche e opprimenti basi dark-ambient, che intrecciandosi con sonorità marziali e sanguinolenti colpi di frustini d’acciaio, ne accentuano i toni tenebrosi, assumendo così sfumature (quasi) sadomaso. Intanto, una robot scandaglia step by step la perversa pratica amorosa, eseguita all’interno di una gabbia di platino elettrificata e rivestita di chiodi arrugginiti (“Gestörte Zweisamkeit”). L’atmosfera classicheggiante di “Verachtung” (che significa disprezzo) non basta ad attenuare la costrizione fisica, provocata dalle continue fustigazioni, dalle legature sempre più strette e dalle immagini e dai rumori di martelli che percuotono pesanti incudini in ghisa. “Rubber Rituals III” chiude ad hoc il cerimoniale: in poche parole, come suonerebbe oggi un’ouverture di musica classica se Mozart, Bach, Beethoven e Wagner si trovassero assieme per un’improvvisata sessione industrial austro-prussiana.
Quindici anni e – si diceva – ben quattro edizioni. È evidente che ha una discreta richiesta, altrimenti non si spiega il perché le prime release siano (quasi) introvabili. È uno di quei dischi da aggiungere nel proprio catalogo delle malattie, dunque da acquistare. Per quel che mi riguarda, è anche stata la ghiotta occasione per spostare finalmente il cd di Renato Zero, posto accanto al “Now Wait For Last Year” della compianta Caroline K.
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