Sebastiano Aglieco / 15 ore fa
Anna Maria Farabbi, ABSE, Il ponte del sale 2013
”Io credo che le prefazioni non siano necessarie alla poesia. A meno che non si radichino come torcia illuminante, innestandosi all’opera con la propria sostanza luminosa”.Non vuole, dunque, esegesi, la poesia di Anna Maria Farabbi, perché sarebbe come tradirne il progetto di innesto, di matrice biologica che essa dichiara. E cioè il corpo vivo della parola si riconosce nella radice dell’essere, e costante è l’appello rivolto all’essere a riconoscersi nella capacità di nominazione della parola femmina, caparbiamente femmina, perché tre sono gli “orci vuoti della cultura maschile: dogma verità e potere”, p. 88.
Questa parola, dunque, chiede al lettore una personale ricreazione partendo proprio dalla natura del fare poesia, “sono pronta, com’è giusto, a rispondere: delle mie scelte, della mia poiesis, interiore e pubblica”, p. 35.
Essere di tutti – ontologicamente, della specie, imparentati con una fratellanza universale iscritta nel codice biologico pronunciato dalla parola - e nello stesso tempo unici, portatori di una storia testimoniata dal personale divenire, dai racconti che terra, cultura e filìa ci hanno tramandato.
Come si può intuire, centrale risulta in questo argomentare la questione dell’io che Anna Maria Farabbi risolve calandolo proprio nell’esperienza del fare; ma nemmeno negando, come si propone certo realismo a tutti i costi, l’esistenza di un agire per ubbidienza: “come se qualcuno mi chiedesse di tacere con un dito verticale a croce sulle labbra”; perché “tacere permette il ritmo”, p. 140; “non è che io sono la poesia / la poesia è lei. e è là // se io so essere vuota / mi entra / lei“, p. 55; “contro il delirio dell’io del d/io / contro la cultura del lutto e del possesso”, p. 67.
Poesia che si fa corpo a partire dalla percezione di questo abse, svuotata di ogni materiale sovrastrutturato e facendosi carico, piuttosto, di una pietas che canti il dolore delle creature, la necessità del loro appartenere alla terra, alla dimensione universale di un uovo sonoro, infine.
É un libro totale, questo, onnivoro di fratellanza, di pietà e dolcezza, dei nomi degli innocenti trafitti e dei loro aguzzini; di nominazione vocativa, che tanto mi ricorda la scrittura di Marina Cvetaeva, fatta di parole che attraversano obliquamente la poesia, la prosa, la riflessione estetica.
Un libro costruito su vocabolari naturali: abse contiene in sé universi e vuoti: “è il nulla; la stupefazione di ciò che è inesprimibile [...] “, e quindi “dichiara [...] la negazione del dire fino in fondo”.
Abse è anche i suoni che contiene: “abise è matita, [...] abside [...] il luogo cuore liturgico dove entra con precisione la luce del rosone”; fino all’esternarsi del puro fonema, “s”, esperienza del vuoto, che permette la rigenerazione della parola madre, il dialetto, l’incipitaria: dare nomi alle cose, partendo dalla sostanza bruta della prima esperienza.
Questa lingua, ma come tutte le lingue madri, è abitata da figure impastate di terra, di sonorità boschive, di lasciti incommensurabili: la nonna, il padre, la maestra.
E poi i riti, le cerimonie pubbliche e private, il parlare nel teatron facendo risuonare qualcosa di intimo che, venendo dalla Voce, dalla vocazione al canto e al dono, è accolto senza domande e innalzato sull’altare della necessità e del sacrificio: “ogni volta che prendi la parola / convochi i tuoi antenati / verso cui devi rendere conto”, p. 132.
Potrei partire da qui, per costruire la mia personale variazione di senso e suono intorno all’impulso ad agire che viene da questo manoscritto: innestarmi nell’elenco di creature penitenti e sofferenti che le pagine portano con sé; potrei partire dal mestiere di maestro che esercito, dal nonno sagrestano, dal padre bambino che ancora mi abita e scoprire che questa parola in fondo abita il mondo perché chiede essa stessa di essere abitata.
Poesia come gesto che si imprime, un gesto concretissimo, pensato solo dopo, non prima di scrivere, così concretamente sintetizzato in queste immagini:
“scrivo poesie per terra come le madonnare”, p. 37;
“immergo le mani dentro il vino poi lascio le mie impronte digitali sul quaderno; le mie firme rupestri”, p.27.
La poesia di Anna Maria, insomma, a me sembra voglia coincidere con la natura del deperibile e che necessiti di una libera volontà di sacrificio: “Il mio io è qui devastato / irriconoscibile nel volto uscito / dalla simmetria limpida delle tempie / dalla bellezza e dal canto. Ave”.
Sebastiano Aglieco
Koblenz, luglio 2013