Una poetessa innovatrice e femminista
Anna Świrszczyńska (Varsavia 1909 – Cracovia 1984), poetessa, prosatrice, autrice di drammi e di libri per la gioventù. Figlia del pittore Jan Świerczyński. A tale proposito va notato che il suo cognome si differenzia leggermente da quello del padre, a causa di un errore anagrafico che la poetessa non ha mai corretto. Avrebbe voluto seguire le orme paterne, ma dovette rinunciare per motivi economici. Conseguita la maturità nel 1927, si iscrisse alla facoltà di lingua e letteratura polacca dell’università di Varsavia.
Debuttò con la poesia “La neve” nel 1930, pubblicata dalla rivista “La fiammella”, ma come suo vero debutto ella considerava la poesia “Mezzogiorno”, per la quale fu premiata al Torneo di Giovani Poeti nel 1934. Durante l’occupazione svolse attività clandestina nell’ambiente letterario della capitale, prese parte all’Insurrezione di Varsavia (1 agosto-2 ottobre 1944), e lavorò come operaia, cameriera e inserviente d’ospedale.
Quando era già sessantenne cambiò radicalmente il suo linguaggio poetico e segnò una svolta innovatrice nella poesia polacca. Le sue raccolte “Sono una vera donna” del 1972 e “Ho alzato la barricata” del 1974 furono accolte come un fulmine a ciel sereno. Creò una nuova forma, sentiva che la lingua della sua poesia di prima della guerra non era adatta a descrivere la realtà dell’Insurrezione e il suo vero essere femminile.
A proposito delle sue raccolte “Il vento” e “Sono una vera donna” scriveva nell’introduzione autobiografica al volume “Poesie scelte” del 1973: “Se il simbolo della raccolta-debutto poteva essere uno spettacolo teatrale in costume, simbolo di queste due ultime sarà forse il reparto maternità di un ospedale. Cosa è più consono alla poesia? Molti lettori risponderanno di sicuro diversamente da me”.
Ora nella poesia della Świrszczyńska la donna genera non solo bambini, ma anche il mondo. Essa assume volti diversi: madre, figlia, amante, donna desiderosa, tenera, disperata, piangente per i morti, assistente dei feriti, stravagante o molto pratica. La poetessa raggiunge una tale intensità di sentimenti, una tale descrizione erotica, da essere spesso tacciata di esibizionismo, e lei stessa ammetteva di spingersi fino a questo punto.
Un critico letterario ha scritto: “E’ vera poesia! Non un nostalgico miagolio o piagnucolio di una donna debole e sola. Nelle poesie di Anna Świrszczyńska la donna ha un corpo che può essere bello o brutto, porta in sé il dolore ma anche la voluttà, è giovane e poi è anche vecchia. Nei suoi versi semplici e chiari la poetessa non si perita di parlare di sesso, di orgasmo senza eufemismi. Il fatto che riesca ad amare intensamente deriva anche dalla sua forza. Tutto senza veli e abbellimenti, senza finzioni o falso pudore. Czesław Miłosz nel suo libro su Anna Świrszczyńska “Chi abbiamo avuto”, ammette di aver dovuto superare alcuni pregiudizi maschili, per capire bene il femminismo della poetessa. Egli, d’accordo con il poeta Miron Białoszewski, la considera una grande rinnovatrice della poetica polacca e una delle maggiori individualità nella storia di tutta la letteratura polacca.
Si autodefiniva una femminista. Attraverso la poesia voleva liberare la mente femminile dai vincoli della cultura maschile, dal patriarcato. In brevi, chiare e realistiche poesie descrive il destino delle semplici donne. Le sue protagoniste sono donne coraggiose che non ammettono compromessi, contadine, operaie, casalinghe, madri stanche, donne tormentate dalla vita e dai mariti, donne che vincono o perdono, restando tuttavia sempre in conflitto con l’uomo, che la poetessa giudica severamente, spesso con disprezzo e a volte anche con umorismo. Il suo “io” poetico non è languido o sentimentale. Nei suoi versi si sente l’orgoglio di essere donna, di avere il suo corpo di donna. Le sue poesie, soprattutto quelle del ciclo “Sono una vera donna”, costringono a riflettere seriamente sulla femminilità e sui problemi delle donne nel mondo contemporaneo.
Paolo Statuti
Opere di Anna Świrszczyńska:
Poesie e prosa, Varsavia 1936
Orfeo, dramma in 3 atti, 1946
Spari in via Długa, 1948
Arkona – la fortezza di Świętowit, 1948 (per la gioventù)
L’appello sul muro, 1951
Liriche scelte, Varsavia 1958
Racconti di vecchio argomento, 1958 (per la gioventù)
I cornetti del re Giovanni, 1960 (per la gioventù)
Parole nere, Cracovia 1967
Il vento, Varsavia 1970
Sono una vera donna, Cracovia 1972
Storia di vecchi tempi, 1972
Poesie scelte, 1973
Ho alzato la barricata, Varsavia 1974
Felice come la coda del cane, Cracovia 1978
Teatro poetico, Varsavia 1984
Sofferenza e gioia, Varsavia 1985
10 poesie di Anna Świrszczyńska nella versione di Paolo Statuti
Alzando la barricata
Avevamo paura alzando sotto il fuoco
la barricata.
Il bettoliere, l’amante dell’orefice, il barbiere,
tutti paurosi.
Cadde a terra una servetta
sollevando un masso dal selciato, avevamo molta paura,
tutti paurosi –
il portinaio, la mercatina, il pensionato.
Cadde a terra il farmacista
trascinando la porta della latrina,
avevamo ancora più paura, la contrabbandiera,
la sarta, il tranviere,
tutti paurosi.
Cadde un ragazzo del riformatorio
trascinando un sacco di sabbia,
ebbene avevamo paura
davvero.
Benché nessuno ci costringesse,
alzammo la barricata
sotto il fuoco.
1974
La donna conversa con la sua coscia
Solo grazie alla tua bellezza
posso partecipare
ai riti dell’amore.
Le mistiche estasi,
i tradimenti voluttuosi
come scarlatto rossetto,
il perverso rococò
dei grovigli psicologici,
la dolce nostalgia del corpo
che mozza il respiro nei petti,
i crateri del tormento
che precipita sul fondo del mondo –
li devo a te.
Con che tenerezza devo ogni giorno
sferzarti con la sferza dell’acqua gelata,
giacché proprio tu mi concedi di giungere
alla bellezza e al senno,
che niente può sostituire.
Si schiudono dinanzi a me
nell’attimo dell’amore
le anime degli amanti e le possiedo.
Guardo, come scultore
la sua opera,
i loro volti serrati dalle palpebre,
straziati dall’estasi,
densi
di felicità.
Leggo come angelo
i pensieri nei crani,
sento nel palmo
il cuore umano che batte,
ascolto le parole
che l’uomo all’uomo sussurra
nel più sincero istante della vita.
Entro nelle loro anime,
percorro
la strada dell’incanto o dello sgomento
verso contrade inaudite
come fondi di oceani.
Poi, carica di tesori,
torno a lungo
in me stessa.
Oh, quante ricchezze,
quante costose verità,
che ingigantiscono in un’eco metafisica,
quante iniziazioni
delicate e sconvolgenti
devo a te, coscia mia.
La più compiuta bellezza della mia anima
non mi darebbe alcuno di quei tesori,
se non ci fosse la tua tersa, liscia grazia
di animaletto amorale.
1972
Verso recondito
Vivo qui nel lusso,
ho una speciale stanza per ridere.
Dopo un giorno senza gente
nella stanza fuisce la notte
come alleviamento.
Fiammanti giungle di risatine
sbocciano
e scoppiano estatici soli
di scoppi di risa.
La delizia del riso
fa esplodere le pareti
forte come delizia d’amore.
Nella piccola stanzetta
scorrono ghignando costellazioni di stelle
e ululanti di risa vie lattee.
Posso accoglierle tutte e ospitarle,
poiché vivo qui nel lusso.
Ho una speciale stanza per ridere.
1970
Separazione
Il nostro amore ha languito lunghi anni.
Ed ecco ora la separazione
lo ravviva d’un tratto.
Il nostro amore si leva dai morti
allucinante
come cadavere, rinato per morire
una seconda volta.
Ogni notte ci amiamo,
ogni ora ci separiamo,
ogni ora
ci giuriamo fedeltà fino alla morte.
Soffriamo intensamente
come si soffre nell’inferno.
Abbiamo entrambi
45 gradi di febbre.
Gemendo di odio
strappiamo dall’album la foto delle nozze.
E intere notti fino al chiarore dell’alba
piangendo, amandoci,
sudando di mortale sudore
ci parliamo,
parliamo di noi
la prima e ultima volta nella vita.
1972
Dico a me stessa: tu carogna
Ad Artur Sandauer
Dico al mio corpo:
- Tu carogna – dico.
Tu carogna inchiodata alla sordità,
cieca e sorda
come un catenaccio.
Devo batterti fino a farti urlare,
metterti a digiuno per quaranta giorni,
sospenderti
sul più alto abisso del mondo.
Forse allora si aprirebbe in te
una finestra
su tutto ciò che intuisco – sia.
su tutto ciò che è chiuso
davanti a me.
Dico al mio corpo:
Tu carogna,
temi il dolore e la fame,
temi l’abisso.
Tu sorda, cieca carogna – dico
e sputo nello specchio.
1978
Coraggio
Non sarò schiava di nessun amore.
A nessuno
darò lo scopo della mia vita,
il mio diritto a una continua crescita
fino all’ultimo respiro.
Impastoiata da un oscuro istinto di maternità,
assetata di affetto come un asmatico di aria,
con qualche sforzo costruisco in me
il mio bello umano egoismo,
riservato da secoli
al maschio.
Contro di me
sono tutte le civiltà del mondo,
tutti i santi libri dell’umanità
scritti da mistici angeli
con l’eloquente penna del lampo.
Dieci Maometti
in dieci lingue elegantemente muscose
mi promettono la dannazione
sulla terra e nell’eterno cielo.
Contro di me
è il mio proprio cuore.
Addestrato da millenni
alla crudele virtù della vittima.
La molla
La più grande felicità che mi dai,
è la felicità che non ti amo.
La libertà.
Mi crogiolo vicino a te
nel calore della tua libertà
mansueta della mansuetudine della forza.
Tenera
vigile come una molla.
In ogni mio abbraccio
sono pronta ad andarmene.
Come nel corpo dell’atleta
il prossimo salto.
1972
Sono ricolma di amore…
Sono ricolma di amore
come un grande albero – di vento,
come una spugna – di oceano,
come una grande vita – di sofferenza,
come il tempo – di morte.
Colloquio notturno molto triste
- Dovresti avere molti amanti.
- Lo so, caro.
- Ho avuto molte donne.
- Ho avuto molti uomini, caro.
- Sono un uomo finito.
- Sì, caro.
- Non fidarti di me.
- Non mi fido, caro.
- Temo la morte.
- Anche io, caro.
- Non lasciarmi.
- No, caro.
- Sono solo.
- Come me, caro.
- Stringiti a me.
- Buonanotte, caro.
1972
Il lucchetto
I nostri corpi
non vogliono separarsi.
Si sono serrati con le braccia
e ci guardano con terrore,
come due bambini guardano un assassino
che si avvicina.
Non capiscono niente. Impazziti,
bagnati di lacrime,
tremanti dal singhiozzo,
chiedono, chiedono senza fiato
perché.
E non ascoltano la risposta,
chiedono di nuovo
senza fiato, senza fiato,
gemendo, implorando
pietà.
Ma noi
non possiamo aver pietà di loro.
Spezzeremo il lucchetto delle braccia,
strapperemo i capelli arruffati
getteremo
nelle due parti della stanza
due morenti
impotenti brandelli.
1972
(C) by Paolo Statuti