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Annamaria Ferramosca: Other Signs, Other Circles

Creato il 11 gennaio 2011 da Cultura Salentina

Annamaria Ferramosca: Other Signs, Other Circles
Là dove tutti i linguaggi si compiono ha inizio il linguaggio poetico, la nostalgia dello spazio vuoto e vergine, che preannunciano sintonie non estranee al pensare alchemico (Octavio Paz)

1.   Cometa  salentina.

“Spero che le mie pagine, le mie poesie ti siano/risuonino di serenità, così conclude Annamaria  Ferramosca, “sorella salentina”,  un post su facebook, dopo avermi fatto dono  ( in occasione di  un incontro kafkiano, nella Biblioteca della Pace) del suo ultimo libro antologico, Other Signs, Other Circles”, Chelsea Editions, Collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, New York, 2009, che comprende testi da varie raccolte di poesie ( 1999-2009) in gran parte edite, in italiano e ininglese, tradotte e introdotte da Anamaría Crowe Serrano, un’irlandese un po’ “salentinizzata”, che è poetessa in proprio, insomma un lavoro quasi simbiotico fra le due Annamarie. Non so in inglese, ma il risultato che ne è venuto fuori in italiano è intenso e leggero, armonico e dissonante, pieno di suoni, di luci e di geometrie, insomma splendido. Molti i commenti positivi da parte dei più disparati lettori dei vari blog: è poesia-dimora del tempo sospeso, dei “cerchi necessari”, della rifrazione, una metapoesia scintillante, fatta di neologismi, improvvise aperture, con una componente di sperimentazione linguistica, in cui viene sottolineata la dimensione mitopoietica, la forza evocativa dei  testi e  una polisemia  gorgogliante, che richiede una continua riformulazione, una spasmodica richiesta di aderenza, quasi una coazione a nascere. Non so se è questa la poesia che “salva la vita”  come dice la Bisutti, ma è certo che i versi di Annamaria  comunicano  continue  vibrazioni, anzi “ caparbie vibrazioni”, e offrono “mandorle di luce nella coppa del buio ” ed anche  “cesti di scintille”. sulla “Piazza delle vinte tarantole”… dove l’aria / è disegnata di spade con le braccia e…le ragazze scintillano la terra dove ballano/ volano i cerchi delle gonne  alla luna/ s’incendiano i tamburi / fino a sangue” (pag. 28). Leggendo questi versi  uno subito pensa a Lorca  e a Bodini, forse il più grande  poeta surrealista  italiano, come disse Maria Luisa Spaziani, che le antologie scolastiche ( e l’establishement) continuano ad ignorare; del resto che il Salento fosse più vicino alla Spagna meridionale che all’Italia, questo lo sapevamo dal  tempo  della “Luna dei Borboni”. E quindi ecco, dopo quarant’anni dalla morte del poeta leccese, appare un’altra cometa salentina, originaria di Tricase, che sembra proseguire su quella strada, poesia immersa nel folclore vivo e denso del Salento, ma che non ha nessuna nozione coloristica e folcloristica; anzi è una poesia colta, raffinata, originale, fuori dal coro e da qualsiasi scuola, visionaria, surrealista, piena di epifanie e simmetrie liriche, che hanno dimensioni europee, universali, e infatti, non a caso, questo è il suo terzo libro che viene tradotto in inglese, che è appunto lingua ormai universale. E sempre non a caso le è stato assegnato, nel 2009, a Locri, il premio mondiale di poesia “Nosside”, una sorta di Nobel per gli autori appartenenti alla quarta galassia della letteratura.  Anche lei, come la soave e amorosa poetessa del filone dorico-peloponnesiaco del III°-IV sec. A.C., è destinata a gareggiare con le Muse. Ma diversamente da Bodini, Annamaria possiede  una grazia suprema, tutta femminile, e una fede, una speranza che riesce ad allontanare quella allucinante visione bodiniana di un meridione impotente rassegnato alla fatalità, un Salento immedicabile, irrimediabile, che rimane solo “ carne macellata”, come i suoi tramonti quasi africani. “La poesia – diceva Montale – è  frutto di solitudine e accumulazione”,  di sensazione, memorie, sentimenti, ma anche di  un qualcosa di assolutamente misterico, inconscio, ancestrale, come osserva Donato Valli:   “Questa scrittura ha qualcosa di ancestrale e di cosmico per cui si espande fino a comprendere ogni manifestazione della vita ordinaria, anzi ne diventa l’intima giustificazione, la tessitura che lega “le tracce e i fuochi”. Ecco, questa sublimazione della prassi del vivere è il fulcro di questa poesia.”

Annamaria Ferramosca: Other Signs, Other Circles

Annamaria Ferramosca

Ma certe memorie dell’infanzia salentina di  Annamaria,  che ha trascorso gran parte della sua vita a Roma, certi squarci della sua “ terra / assopita  al canto di nenie circolari”, fanno parte della sua inconsapevole giovinezza, delle corse di primavera, del segreto misterioso ansare dell’anima in questa stagione …una corsa di primavera per i prati  e l’emozione tumultuosa e vividissima, uno zibaldone di sogni, nel suo “Paesemondo” (pag. 186), una sorta di Cocumula bodiniana dove stanno  “ uomini con camicie silenziose / (che)  fanno un nodo al fazzoletto /  per ricordarsi del cuore”, qui Annamaria ritorna “pellegrina”  “ a uno spazio d’equilibrio / sommerso di luce orientale /, qui è la sua casa-paese protetta che protegge/ senza recinti / attraversala è penetrare / una calda coerenza / un racconto vivo che non si ferma / oltrepassa i muri /… tatuata casa-paese che con noi cammina / ovunque, sotto l’unico cielo scritto dalle stelle / paesemondo / per vivere, con-vivere.

E’ il fulgore della risurrezione, quel ritrovare i giorni della prima  infanzia, elegia infinita, fiaba incantata e struggente  ricerca del tempo perduto, diario,

libro dei sogni. Ecco “uno scialle (che) si agita nella danza del ragno //… anche se tutto il male di stelle / che doveva piovere  è piovuto/ la notte regale ancora lumi / fuochi fatui di timpani che ondeggiano/ si sale inconsapevoli su fili / tesi tra  terra e  luna …/ il pane ha battuto  il ferro/ il sangue  rientrato in vena / in alto il nostro suono indelebile / oscilla quantica// l’offerta di una mano (pag. 142)

2. La vocazione poetica

Ma Annamaria è cittadina del mondo, soprattutto cittadina dell’Urbe : “è in Roma babelica che vivo/ immersa nella calca”, e viaggia  spesso in “ Metropolitana”,  che ricorda un po’ la circolare rossa cardarelliana degli anni quaranta. Anche lei guarda visi di uomini e donne : “Tra foglie e nuvole, a tratti / Eur, Magliana, San Paolo, mi dileguate / quest’aria nera di gallerie romane / siete ridenti, oggi, in abiti e parole… (pag. 38). In quel suo “corpo musicale”, in questo  nostro “vivere imperfetto”, in questo “arco di vita che è un incendio”, in questa sua vita che è “un’arancia dove si sgranano gli spicchi e volano”, Annamaria scopre (tardi), grazie anche al poeta Plinio Perilli, l’autore di “Ragazze italiane”,  improvvisamente la sua vocazione di scriba, avverte la scrittura poetica come suo irrevocabile destino, scopre che parlare è come nascere agli altri, ogni volta, è un venire alla luce (pag.66), è abbracciare il mondo / coi capelli che cantano !, è scoprire che la tua voce è / infinita…

“L’uomo, persino quello avvilito dal neocapitalismo e dallo pseudo socialismo dei nostri giorni – scrive Octavio Paz – è un essere meraviglioso perché, a volte, parla”. Il linguaggio è il marchio, il segno della sua sostanziale non responsabilità anziché della sua caduta. Attraverso la parola possiamo accedere al regno perduto e così recuperare gli antichi poteri, quei poteri che non ci appartengono, l’uomo ispirato,  colui che davvero parla, non dice nulla di suo; per la sua bocca parla il linguaggio.  “Salta la mia parola  come un cavallo dinanzi al vento”, diceva Paz. Ma la parola può essere anche un cavallo imbizzarrito, un boomerang, un’arma a doppio taglio. Può diventare salvezza o dannazione.“Mai avrei pensato di dipendere / così dalle parole, più da quelle / incorporee, che arrivano/ improvvise al telefono, così dense/ che intravedo  lo sguardo /di chi parla scrutarmi ad ogni sillaba (pag. 154). Ogni parola è una porta  aperta, ma anche un salto nel vuoto, e in quel vuoto enigmatico, assoluto del non bisogno di dire e di agire, eccola sulla via dello spoglio inventare spazi che alla fine inventano lei, inventare  un altro spazio che ignora i confini della propria mente, e li enuncia. Uno spazio in cui si crede di ascoltare nuove voci di speranza, il poema segreto dell’universo, che nessuno, o quasi nessuno, ode. E in quel poema c’è  tutto il silenzio denso profondo infinito dell’uomo pieno di stupore e di meraviglia dinanzi alla propria creazione, un “silenzio / che  ci esplode in segni” (pag.170).

  1. I segni  “altri” e i cerchi “altri”

Ed ecco l’energia “palpabile” che emana dalle rocce, dai loro “nodi antichissimi”, trasformare il paesaggio terreno e quello umano:“Ancora siano i segni sulle rocce/a dischiudere il tempo///Ancora siano i segni sulle pagine/a traghettare il tempo: lontanissimi/lembi di cielo pulsanti sulle onde..” (pag.122). Ma ritornano spesso nella poesia di  Annamaria quei momenti colloquiali con l’altro, quei momenti di aggregazione poetico-civile, il legame tra istante, come fessura incantata e materia, o insieme di istanti in quanto campo relazionale, ed è allora che una donna scrive. “Oggi una donna”  scrive per dire no / alla morte per-uomo /

scrive per chiedere / per intimare al tempo di rispondere (pag. 152), poiché “solo le parole deflagrano / abbattono muri, in cascata / crollano altri muri / avanzano nuove ere / al passo di mille e una fiaba, vere.

//Dammi parole dunque, e segni / piangi sulla mia spalla, o ridi / offrimi le scene della gioia Incontrami/prima che si diradi la foresta / prima che accada il nero errore / prima dell’ultima risata…”

Perché, Annamaria, “Other Signs, Other Circles”, ovvero Altri Segni, Altri Cerchi?  “ Per necessità di invertire la rotta dell’attuale percorso umano, che vorrei seguisse “i segni altri”, le vere parole della comprensione, contro ogni forma di autoannullamento, e “i cerchi altri” del costruire insieme un mondo diverso (tutto ciò indipendentemente dalla responsabilità di genere)”. Ovvero – come annota Gianmario Lucini – il senso di spaesamento di fronte a un mondo sempre più tecnologico, dove comunicare diventa problematico e la solitudine ci accompagna (solitudine evocata ed esorcizzata nelle ultime tre poesie), ma dove il poeta può trovare un nuovo ruolo, riscrivere le pietre del mondo, cogliere il silenzio “che esplode in segni”, partendo anche dal passato e stabilendo con esso diversi nessi.

  1. Essere Donna, oggi.

Scrive Dolores Prato, una delle figure più ignote e interessanti della letteratura italiana contemporanea, nel suo libro“Sogni”: “Ho sentito una cosa grande che rischiarava il mio cuore, sognai che cos’era la morte, sognai cose’era l’amore, l’unione tra due esseri, quel che annulla la solitudine, uno spasimo lieto puro

fresco santo come il sorgere di una vita”. Dolores  sognò  la porta misteriosa da cui si era aperta la sua vita, di quel colore grigio che assume il legno bagnato dalla pioggia, asciugato dai venti, essiccato al sole. C’era la cessazione del dolore, una striscia verticale di paesaggio, il ritratto insaputo di un’età che nulla più poteva testimoniare, c’era la speranza, la fede di una donna che crede nel riscatto dell’uomo fino a sfidare l’impossibile. Anche Annamaria è sulla soglia di quella porta, come poeta e come donna, e ci dice di “lasciarla far luce / con le sue lanterne, vigile / sulle alte mura trasparenti / lasciarla apparire e sparire / come lei vuole / dosare i richiami/ perché possa appartarsi / in qualche sua giungla di luna/ Forse con una donna / disperata di te, del tuo mondo / non serve dividere corone / meglio farsi esuli insieme / navigare con lei navicella lunare / approdare su placide ginecosfere / dove lei è dispensiera /di pane e parole…”

Può essere considerato il suo, se vogliamo, un ermetismo dinamico che scava l’osso del materiale poetico, con capacità di sintesi; un vivere il testo in un rapporto tra il simbiotico e la linearità interpretativa, in una immersione immaginaria, un viaggio a ritroso nelle matrici oscure, e nelle frane dell’inconscio,  dell’atto creativo, che è sempre femminile, dell’inizio della vita, della sua capacità trasformatrice del banale quotidiano in poesia, di ricreare la natura intorno a sé o di rifarne il cammino, con tracce di arcaico che rimangono impresse nella struttura compositiva, la messa a punto dei fili conduttori di una presenza che diventa sempre più immagine del reale, realtà del sé, una forma di autoanalisi  pubblica, in cui fantasia sentimento ragione e piacere si fondono. Alla fine è solo il tentativo di traduzione di un mistero qual è quello della poesia, della fede nella trascrizione di un pensiero  incontrollabile dalla ragione, segreto anche per l’anima, che lei  vive con la più intensa delle passioni, istintuale, erotica che dirompe dalle sue tempestose  immaginazioni. Il suo tessuto figurativo è fatto di sogni, sensazioni, riflessioni, immagini che si compongono e si scompongono si susseguono veloci, senza un nesso, come i trailers di un film, lo scorrere dei sentimenti, i flashes irrelati di treni presi in corsa, o di aerei perduti che volano chissà dove, il senso di una costante volata in punta  di piedi, con leggerezza di rondine, pezzi di vita, sogni rivelatori  che scoprono la vita  e le sue radici. Ansiti dell’anima, visioni che agitano il sonno ( sangue orrore distruzione morte), inquietano, ti fanno vagare in una voragine simile alla notte. Forse bisogna tornare all’origine, al suo principio, al suo archetipo, questa è la ricerca della verità ?  Noi, in fondo, cosa siamo, cosa lasceremo di noi stessi, qual’ è il nostro destino?   “siamo mandorle di luce nella coppa del buio / minime caparbie vibrazioni/ Lasceremo tracce di un approdo / un viluppo tremante al riparo   // tornare nudi su terra nuda / farsi gola d’agnello mille volte / se occorre ancora sangue / per il gocciolio della fine / porte del mondo che ritornano alberi / città come campi da seminare / illuminati a regno piove / un silenzio-beatitudo / sonno infantile, lava che pietrifica / una fila di pietre da riscrivere”

In questi suoi versi, che chiudono alla grande la silloge di “Other Signs, Other Circles”, Annamaria rifà la storia di sé stessa e del mondo, tornano le memorie e i sogni dei poeti della sua terra“che attende ogni alba / la sua grande nave”, tornano i Bodini, i Pagano, i don Tonino Bello, i Donato Valli, i Verri, ma anche altri  poeti universali come  Paz, Montale, Borges, Eliot, San Francesco d’Assisi, e i riferimenti biblici a Isacco, al cieco di  Gerico, allo “scriba”, che è sempre  in attesa di un foglio bianco, fatto di luce viva, di un silenzio pieno e perfetto in cui c’è tutto lo scibile dell’universo.


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