Amsterdam, 5 agosto 2003. Soltanto una tappa, tra il volo KLM da Torino e quello Air Lingus per Dublino. Cinque ore a disposizione, dalle nove alle quattordici: giusto per il treno da Schipol alla Centraal Station, una passeggiata lungo il Damrak e un gelato. Il caldo umido impregna il cielo di un azzurro lattiginoso. In giro solo qualche gruppo di turisti con zaino e infradito. Le biciclette ronzano tra i tavolini dei bar e i furgoncini parcheggiati, A centro strada una doppia fila di rotaie su cui scivola leggera la metro. I Winkel, i caratteristici negozietti che si affacciano dai vicoli, sono pressoché deserti. Dietro gli occhiali scuri, Giulia sbadiglia per la fame e il sonno.
Svoltiamo a destra davanti al Koninklijk, il palazzo reale; poco più avanti, di traverso, la sagoma ingombrante della Nieuwe Kerk. Questa è l’Amsterdam che ancora testimonia la ricchezza dei grandi commercianti di spezie e diamanti. Le case sono splendide, alte e strette, le facciate adornate da preziosi frontoni. Severa eleganza calvinista. Forse faresti bene a non guardare dentro le finestre, suggerisce Giulia. Beh, rispondo, dato che non ci sono tende nessuno dovrebbe prendersela. Non mi sembra un buon motivo lo stesso, obietta. Un po’ calvinista anche lei.
Ponti a schiena d’asino scavalcano i canali che attraversano il centro città: nell’acqua tremula, file di barchini addossati agli ormeggi e paperi starnazzanti. Il Roondvart, il giro in battello, poteva essere una buona idea. Averci pensato.
Prinsengracht 263. Una tipica abitazione affacciata sul canale omonimo, non diversa dalle altre intorno. Niente di particolare, se non una piccola targa. Anne Frank Huis. La casa nella quale la famiglia Frank si nascose sperando di sfuggire alla follia antisemita, oggi diventata museo. Davanti all’ingresso una lunga e ordinata coda di visitatori prosegue fino giù in Westernmarkt. Al pianterreno la sede della ditta di Otto Frank – Opekta, spezie e additivi alimentari – e quindi il retrocasa, da lui predisposto nel 1942. In questo rifugio segreto, protetto da una libreria girevole, Anna trascorse più di due anni insieme alla famiglia, ai Van Daan e al dottor Van Dussel. Qui Anna scrisse il proprio diario: Het Achterhuis, il retrocasa appunto. Lo lessi intorno agli otto anni, edizione Oscar Mondadori (prefazione della Ginzburg). Appartiene a mamma, ma lo conservo tuttora nella mia libreria.
Vedere le cose con i propri occhi restituisce un’impressione significativamente nuova: l’immaginazione sedimentata nella memoria si riveste di suoni, del calore del mezzogiorno, dell’odore di pesce, le tonalità di grigio cedono spazio ai colori. Sebbene Anna spieghi nei minimi dettagli il luogo in cui è nascosta, me lo raffiguravo come un nascondiglio minuscolo, una specie di mansarda con il soffitto basso basso e pochissimo spazio per muoversi. Quando mi ritrovo sottomano una piantina prospettica, capisco che si tratta invece di un appartamento piuttosto ampio: scale, scalette, corridoi, stanze grandi e piccole, un tempo ammassate di mobili massicci, tappeti, suppellettili.
Giulia è dispiaciuta: non riusciamo a ritagliarci un’ora per visitarlo. Dal canto mio non lo sono troppo. Anna non poté mai affacciarsi su Amsterdam devastata e incendiata, e io non voglio violare quella clausura privata. Preferisco serbare intatte e immobili le forme indistinte evocate dalle pagine ingiallite del suo diario.