Degli anni ’90 ricordo il colore dei jeans che si associava a quello dei cieli autunnali che scorrevano oltre alla visiera dei caschi. Sui motorini che sfrecciavano sulle strade delle piccole città e che poi si fermavano in gruppo, con altri motorini, si consumavano discorsi e moscerini, i saluti a quella popolazione conosciuta come i compagni di scuola e le urla e i commenti a quelli che erano destinati al pubblico ludibrio: finocchio, pazzo, iettatore! La società si auto-divideva in classi e gruppi, vi erano gli emarginati e gli sfottuti, ad esempio, che facevano gruppo a sé ed avrebbero fatto meglio a non uscire di casa.
A volte si beccava per strada il malato di Aids.
Tutti noi ragazzi sapevamo che era stato infettato. Noi lo sapevamo per via della velocità delle voci in un paese, che sappiamo superi di gran lunga quella della luce. Aveva una faccia strana che secondo molti di noi era ciò a cui andava incontro un malato di Aids. Avere una faccia strana, associata ad un corpo emaciato, un principio di gobba, la pelle molto chiara, gli occhiali da sole quasi sempre sul viso; la perfezione dell’imperfezione.
Pensavamo che non avesse per nulla voglia di guardare in faccia i suoi compaesani “sani”, dal basso della sua statura, rivestita però da abiti eleganti anche quando andava al centro scommesse vicino alle scuole. Anzi, soprattutto quando scendeva da una macchina importante e andava, sempre accompagnato da qualcuno, al centro scommesse.
Eravamo sicuri del fatto che, anche se gli mancava ormai poco, a quanto si diceva, un raffreddore poteva stroncarlo all’istante, lui che era pure uno dei più ricchi del paese. Si sarà divertito nella sua vita, pensavamo, chissà a chi andranno a finire tutti i suoi soldi. Non era sposato, anzi, abitava con la madre.
Molti, come me, sapevano tutto. Tutti commentavamo empaticamente la nostra partecipazione alla visione del malato, che era un alieno con una voce strana, e raramente ci spiegavamo il perché o ci limitavamo ad un appunto. No, la verità delle voci di paese è difficile da reinventare. Impossibile scoprirne l’origine ad esempio.
Poi c’erano dei film strani che tentavano di prendere in giro un problema tanto diffuso come l’educazione sessuale tra i giovani e il rapporto con l’Aids. Ai tempi registravo su cassetta film orribili che guardati oggi dimostrano soltanto un che di antropologico. Il film si chiamava Anni 90 ed era disturbante persino per una generazione cresciuta con pubblicità, Italia 1, con le psicologhe in classe, con i vaccini obbligatori, con la confusione su tutto e la certezza su niente. Insomma, non si capiva perché gli orecchioni e la varicella dovevano attecchire tutti i bambini del vicinato e l’Aids no. O meglio, si capiva che era un’altra roba, ma non tanto cosa fossero quelle cose trasparenti a forma circolare, dentro bustine quadrate. «Di chi è questo? Mio, mio, mio…», dicevano quei ragazzi in tv. Quella pubblicità mi creava un certo imbarazzo e speravo di non ritrovarmi in una situazione del genere. Se un professore avesse trovato quella cosa per terra, io non mi sarei preso le mie responsabilità. Cosa voleva dire averci a che fare? Cos’era la prevenzione? Cosa l’epatite? Quali rapporti, poi? E chi erano i travestiti del film, chi i culattoni portatori di malattie?
In tutta questa strampalata confusione le generazioni si sono alternate e rinnovate, dalle città ai paesi ognuno ha preso coscienza del suo passato e oggi ci ride su. E in tutta questa storia il presunto malato di aids è ancora vivo e passeggia qualche volta per il corso.
E se non gli fosse mai stata diagnosticata l’infezione?