Siamo, tornati, dopo anni, al falò dell'Inverso. Lassù, lontani dai riflettori del falò centrale (che dall'inverso non si vede nemmeno), dove affluiscono i foresti, e dove l'uomo del villaggio che ha bisogno del suo senso di appartenenza non sempre si è sentito a suo agio.
E' una piccola realtà quella dell'inverso, ma è viva, ci si sente la comunità. Sarà che sono pochi, tagliati via dal paese per via del fiume e di quel ponte che non c'è più. O chissà cos'altro. Sono cambiate alcune cose dall'ultima volta: cose di logistica, tipo il falò che si è spostato un po' più sotto la montagna. Le persone no, anche se si vede qualche ricambio. Ci sono tutte le generazioni, e questa è cosa buona.
Il rituale è sempre quello: si accoglie l'ospite, quella istituzionale, portata dal pastore e, (sorpresa!) quello inatteso, la stella anni '70 della terza religione del villaggio, l'hockey su ghiaccio. Ci si avvia dalla scuoletta al falò, per un vialetto scavato nella neve (me lo vedo, uno degli uomini dell'inverso, che nel pomeriggio lo ha spalato, quel vialetto. Con la cicca in bocca, movimenti lenti ma sapienti. Ha messo anche alcune fiaccole accese a segnare la via, ai lati). Si canta, andando a scavare nella memoria, magari scambiando le strofe degli inni, magari rimpiangendo chi quel coro sapeva guidarlo. Ma tant'è. Il fuochista è cambiato, il padre ha lasciato il posto al figlio. Ma la sapienza è la stessa.
Qualcuno rientra al caldo della scuoletta, ad aspettare chi resta ancora fuori e preferisce il caldo del fuoco. Il pastore parlà un po', ricordando che si celebra una festa di libertà, non religiosa. Poi si mangia insieme, in un atmosfera per lo più raccolta e di voci basse.