“Anni felici“: la storia di una coppia fragile, ma forse persino felice
Una ventata di spirito libertino invade la pellicola che ha iniziato a dispiegarsi in tutte le sale cinematografiche a partire dal 3 ottobre con un titolo ancora più entusiasmante “Anni felici”. Questo è il film di Daniele Luchetti, regista, voce narrante e protagonista nelle vesti di Dario (nome proprio di persona che sembra derivante da “diario”, la funzione che in realtà egli assolve nel sistema-film), figlio maggiore (10 anni) di una coppia singolare, Kim Rossi Stuart nelle vesti di Guido e Micaela Ramazzotti, interprete di Serena. Questi sono personaggi antitetici, ma uniti da un amore fortemente erotico.
Nella prima parte del film prevale l’ego di Guido tendente a narcisismo, in fondo caratteristica di tutti gli artisti come lui. Egli è un giovane pittore anti-convenzionale che ama modellare forme umane per ridare un’immagine alternativa dell’uomo contemporaneo, partendo dalla sua fisicità. Peccato che per plastificare queste forme artistiche egli si serva degli splendidi corpi di alcune modelle su cui si delizia a creare grandi calchi monumentali. Non è difficile immaginare come si passi senza troppa fatica, dal massaggiare al baciare la modella di turno e, infine, a tradire la sua tanto amata Serena. Quest’ultima è sempre più insospettita e indispettita e, quindi, si rivela oggettivamente pressante verso di lui e invadente per il suo lavoro di artista che, naturalmente, richiede oltre che passione, anche molta concentrazione e solitudine.
In realtà, fin qui, non si nota nulla di così perverso o eccezionale, un’odierna storia d’instabilità amorosa, di fragilità interiore, di tradimento devastante persino per una coppia duratura e coniugata con due bambini. Eppure proprio questi, i loro figli, sono involontariamente coinvolti in questo vortice di vulnerabilità e sempre più partecipi dei litigi dei loro genitori. Questi bambini, pur sapendo e notando tutto, coprono le scaramucce del padre agli occhi della madre perché, ovviamente, per loro è più importante tenere stretta e unita la famiglia intorno a loro.
Nel complesso emergono due genitori troppo concentrati su se stessi per accorgersi di aver esageratamente trascurato i propri figlioletti. Tutti i punti di focalizzazione dei personaggi emergono lampanti grazie all’obiettivo della cinepresa che la nonna regala a Dario, in realtà Luchetti stesso. Questi emblematizza, quasi alla fine del racconto, tutta la drammaticità di una storia così poco esternata, ma tutta interiore. Mentre i genitori discutono perché il padre, apertamente e senza imbarazzo, confessa i suoi ripetuti tradimenti e la moglie li accetta di buon grado, Dario si allontana e si dirige vicino ad un peschereccio. Infine egli esclama “siete tutti stronzi!”, frase-chiave dell’intera trama narrativa e psicologica. Poi, in ultimo, un gesto si rivela quasi l’epifania del momento: Dario si butta in acqua. I genitori si affannano a recuperarlo sott’acqua, perché la maglietta del bambino rimane impigliata nei raggi della ruota di una bicicletta sotterrata nei fondali del mare. Solo quando sarà riportato in superficie sano e salvo, la voce narrante commenterà amaramente “finalmente si erano accorti di me”. Questa è la frase rivelatrice non solo della storia in questione, ma delle vicende di tantissime famiglie italiane a partire dal 1974 (anno di ambientazione del film) fino ad arrivare ai giorni nostri.
Spesso basterebbe un pizzico di buon senso per evitare i numerosissimi processi intrapresi per divorzi, separazioni ed affidamenti. Dalla rivoluzione sessantottina per passare fino al ’74 è stato inciso un cambiamento rivoluzionario, sicuramente innovativo, ma che ha seminato tanta incertezza e una libertà, a volte, mal gestita. Quelli erano sul serio “anni felici”, che hanno permesso il godimento di una libertà impensabile fino a pochi anni prima, una curiosità culturale introvabile oramai e soprattutto un entusiasmo vigoroso che i giovani d’oggi non si possono più permettere. L’ambiente stagnante, la politica non più militante, la corruzione incessante spinge davvero a rivolgersi verso quegli anni con una profonda nostalgia e quasi con un’inaspettata gelosia. Tutto profumava di nuovo e di misterioso nel ’74 e questo senso sconfinato di ebbrezza culturale non sarebbe mai stata mercificata, a nessun prezzo. La propria interiorità veniva custodita a ogni costo fino a giungere al paradosso di perdere quella stessa così com’è avvenuto per Serena.
Questa splendida Micaela Ramazzotti, precedentemente moglie sempre presente, a volte assillante ma dedita interamente alla famiglia, emblema borghese e figlia di una famiglia di classe media. Dopo il distacco del marito e la consapevolezza dei suoi tradimenti, allora lei diventa così intraprendente da decidere di lasciare il suo nido e di partire con i figli alla volta della Francia con un gruppo di femministe. Gesto improponibile per una benpensante come lei. Eppure questo mutamento è stato reso possibile grazie ad una riflessione di passaggio che si interpone tra queste due identità di Serena. Le viene chiesto cosa desideri veramente dalla vita e sa rispondere che brama soltanto ciò che brama il marito. Insomma, si tratta di puro annullamento della personalità, di totale schiacciamento dell’interiorità a causa di quel nobile concetto che è la famiglia. Quando le viene chiesto a cosa aspiri per il suo futuro a livello individuale e non di coppia, la sua risposta stupisce e delude allo stesso tempo. Lei non lo sa in realtà. Lo scoprirà soltanto con un viaggio in Francia che, in seguito, si rivelerà anche un viaggio omosessuale. Ecco la scoperta di una Serena imprevedibilmente lesbica. Un viaggio senza ritorno in senso spirituale. Anche se approderà in Italia, non sarà più la Serena di un tempo. Lei ha ritrovato la personalità perduta ma che si presenta troppo sconvolgente per il marito il quale ora sembra aver preso, a sua volta, le veci del più conservatore. Insomma, una contraddizione continua…non è forse quella dei nostri giorni?La trama non scorre veloce, ma rapidi sono i sussulti dell’anima a cui il film conduce. Un racconto per certi versi crudele e spietato perché costringe lo spettatore a porsi delle “belle” se non ardue domande le quali sembrano di un’attualità sconcertante. Eppure, tra ripensamenti e osservazioni della voce narrante, alla fine di questo scompiglio, quando ormai tutto sembra irreparabile, Dario ammette “quelli erano anni felici”. Tuttavia, è davvero doloroso accorgersene quando quegli anni fanno ormai parte del passato. Chissà perché la felicità non si accompagna quasi mai al presente. Ecco l’interrogativo che il film rilancia, allora, allo spettatore.