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La pellicola è centrata infatti (molto liberamente) sulle peripezie della sua famiglia, sul rapporto conflittuale tra suo padre e sua madre: lui artista-scultore e insegnante d'arte, lei comune donna dell'epoca innamorata del marito al punto da sopportargli i ripetuti tradimenti che senza amore si concede con le modelle nel suo studio. A scrutare le loro dinamiche, litigate e pacificazioni, gli occhi e il punto di vista di Dario - che poi sarebbe Daniele - insieme al piccolo fratellino Paolo, che assiste incuriosito e innocente. Ma a voler essere più precisi "Anni Felici" racconta in realtà di un estate, quella del 1974, e da essa, ancor più precisamente, mira ad inquadrare un'intera epoca, quella in cui stava per farsi largo il femminismo, in cui la nudità intesa come libertà e affermazione di sé stessi apriva le porte e, da sconosciuta qual'era, destabilizzava comportamenti, persone e società.
Proprio per la sua natura aperta ed estesa allora, l'opera intimamente empatica di Luchetti non può permettersi il lusso di scuotere e di accendere emozioni e stomaci abbastanza da farli rimanere coinvolti e feriti nell'esplosione. Per scelta il regista questa volta vuole che i sentimenti siano più semplicemente compresi e riconosciuti, visti al di sopra, analizzati magari nella parabola che coinvolge i personaggi di Guido e Serena (gli affiatati Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti) e il loro amore puro, vero e invivibile. Si individua quindi la difficoltà globale di sapere amare, la stessa difficoltà che abbraccia tutti, nessuno escluso, sporcata dalla necessità di reclamare libertà sapendo di non poterne ricevere perché appartenenti ad un altro, a cui egoisticamente non si è disposti a concedere l'equo trattamento preteso. Così "Anni Felici" assume spontaneo i tratti distintivi specifici del melodramma, colpito dalla tempesta d'amore passionale di una coppia instabile e squilibrata ma per questo capace di compiersi eternamente, di andare oltre le convenzioni, di non spegnersi mai.
Per merito dell'età (e del periodo?) in cui ha vissuto quegli anni, lui, Daniele Luchetti, (o Dario che dir si voglia) li identifica comprensibilmente come felici, seppure a noi spettatori sembrino oggettivamente assai distanti da quell'aggettivo tanto positivo. In realtà erano molto più genuinamente degli anni vissuti, in cui era possibile aggredire la vita e lasciarsi andare ad essa, spesso facendosi male, senza lasciare che fosse lei ad aggredire noi alle spalle e senza permesso, come probabilmente è accaduto da li in avanti.
Ecco, forse è esattamente questo leggero particolare a distinguere la nostra valutazione del tempo, della vita, degli anni, e a fare in modo che venga attribuito o meno quel riconoscimento appagante che comunemente è chiamato, per convenzione sociale, felicità.
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