“(…) Il generale Amilcare Barca si divincolò dall’abbraccio del figlio, prese Annibale per mano e lo portò davanti all’altare che in ogni casa cartaginese era dedicato a Baal, la divinità suprema dei fenici, il Baal di Tiro: il dio dei padri e dell’eternità. Davanti al nume tutelare, il generale disse al figlio Annibale <<Adesso tu farai un giuramento. Un giuramento solenne>>. Annibale fu percorso da un brivido. In quel momento, l’entrata nel mondo oscuro degli uomini significava troncare di netto i vaghi sogni dell’infanzia per fare di quel bambino di nove anni uno strumento dedicato alla guerra. Il giuramento di Annibale sta a significare che, da quell’istante, egli si votò all’odio contro Roma, ad essere per sempre nemico del popolo romano:
<< Odierò i romani, come essi mi odieranno >>. Fece questo giuramento solenne toccando la pietra dell’altare. E non dimenticò mai più il vincolo sacro di quel gesto (…)”.
Brano tratto da ANNIBALE di Gianni Granzotto
Annibale, della potente famiglia cartaginese dei Barca la cui radice fenicia ha il tremendo significato di “fulmine”, fu uno dei più grandi e più geniali generali e strateghi militari di tutti i tempi.
Egli è da sempre considerato un vero e proprio genio militare. Molte furono (per non dire quasi tutte) le battaglie che vinse contro Roma. La Trebbia, il Trasimeno, Canne sono gli scontri armati più importanti in cui il suo genio, in fatto di strategia e di tattica bellica, si è dispiegato in modo davvero unico e irripetibile dandogli una vittoria schiacciante e l’annientamento quasi totale dell’avversario.
La battaglia di Canne è stata considerata, nel corso dei secoli, addirittura un capolavoro di arte militare e studiata in tutte le accademie e le scuole di guerra del mondo per il sapiente e perfetto schieramento delle forze in campo da parte di Annibale.
Ma non fu questa la sua impresa più grande.
Quel che Annibale, dominato da un odio tremendo e intenso contro i romani instillatogli dal padre con un giuramento solenne già all’età di nove anni, concepì e attuò fu un qualcosa che per i tempi non ebbe eguali e, nei posteri, lasciò tracce vistose di ciò che l’uomo può concepire sfidando l’impossibile.
Si tratta della famosa traversata dei Pirenei e delle Alpi.
Egli partì dalla Spagna con un’armata di oltre centomila uomini e trentasette elefanti addestrati alla guerra e si mise in cammino verso nord.
Il suo piano, audace e formidabile, era di attraversare i Pirenei, dirigersi a est, attraversare le Alpi e sorprendere i romani giungendo da una direzione che essi mai e poi mai avrebbero minimamente preso in considerazione. Il piano riuscì perfettamente, anche se ci vollero mesi e mesi per compiere l’intero percorso(per di più in pieno inverno!), che non fu privo di sacrifici, di sofferenze, di privazioni, di pericoli e di ostacoli di ogni genere.
Fu grazie alla tenacia, al coraggio, al carattere forte e determinato di Annibale se niente, in ogni operazione bellica o meno, venne mai perduto… e forse giocò molto a favore, al riguardo, anche l’odio, che egli aveva dentro, verso i romani, e che lo alimentava ardendogli in petto come una fiamma indomabile e devastante.
Dei trentasette elefanti, gli storici dell’epoca raccontano che solo uno sopravvisse al ghiaccio e alla neve dei Pirenei e delle Alpi. Un solo elefante che Annibale amò e predilisse sempre, quasi al pari di un animale domestico (un cane o un gatto al quale si è affezionati e si vuol bene fino alla morte), fino all’ultimo grande scontro con Roma, cioè la battaglia di Zama. Egli chiamò questo elefante, davvero speciale, Dagon.
Roma temette sempre Annibale, e a ragione, anche quando, sconfitto, fuggì, in esilio volontario, nei regni d’Oriente. L’intuizione e l’immaginazione di questo straordinario condottiero erano formidabili e quasi sovrumane. Egli sembrava possedere come una specie di “sesto senso” nel tempismo perfetto che caratterizzò ogni sua impresa e nella valutazione degli elementi naturali, umani e di logistica che lo condussero alla vittoria in battaglia e alla riuscita di ciò che la sua mente fervida e iperattiva si prefiggeva.
Battè sempre i romani sul tempo. Seppe arrivare “prima” in ogni circostanza, anche nell’ultima ovverosia la morte, poiché si avvelenò pochi momenti prima che lo catturassero vivo!
Di Annibale si può affermare, con sicurezza, che cavalcò la tigre di sè stesso da ragazzo fino al momento della morte.
Cosa fu, in fondo, la sua esistenza se non una disperata fedeltà ai propri sogni e ai propri sentimenti? Forse, in definitiva, la grandezza e la fama di Annibale che scavalcano i secoli e i millenni è racchiusa nella vittoria come fine a sè stessa, come uno strumento di passione.
La battaglia era la sua ragione di vita, e di questa ragione di vita si nutrì e godette fino in fondo con emozione e con intensità profonde, che sono qualità fondamentali dell’esistenza.
Francesca Rita Rombolà
P. S. – Per te, nel giorno del tuo onomastico!