Momento strano. Non che questo sia strano di per sè. È che con più invecchio, con più mi sembra di regredire ad una fase adolescenziale che non ho avuto quando era il tempo. Mi sembra un ingiustizia cosmica essere ferma in una sola vita, senza avere la possibilità di esplorarne altre. Mi sembra un ingiustizia cosmica che la morte esista DAVVERO, che arrivi e che con le persone che ami, si porti via per sempre pezzi di vita anche tua che non riavrai mai più
Papà mi ha sempre detto che il mio bisogno quasi fisico di scenari nuovi, la curiosità e l’irrequietezza che mi fanno venire a noia tutto quanto sia fermo e non-stimolante non le ho ereditate da lui. Lo so. Perchè con più invecchio con più mi accorgo di assomigliare a mia madre. Nel bene e nel male, che aveva un caratterino mica da ridere. Ho ritrovato una vecchia foto di mamma e papà al mare, a Rivazzurra. In costume, sotto l’ombrellone, sorridono felici nel 1980. Una mamma trenseienne dai lunghi capelli color rosso-mogano-ramato sciolti sulle spalle abbronzate. Guardo la foto e mi chiedo se invece di passare una vita a scontrarmi con lei non fosse stato più facile cercare di capirla. Ma so benissimo che allora non potevo, non avevo sulle spalle il bagaglio di vita che ho adesso, non potevo capire la frustrazione dell’assenza di possibilità per una ragazza di famiglia modesta cresciuta negli anni Cinquanta, dalla salute un po’ debole e con una madre un po’ bigotta, e per la quale l’unica possibilità di uscire di casa era sposarsi il prima possible. Anche se mi ha sempre amato di un amore assoluto e totalitario, non sono mai stata sicura che a mia madre piacessero i bambini. Credo che per lei avere un figlio sia stata più una sorta di evoluzione naturale del matrimonio, una sorta di estensione inevitabile del suo ruolo di donna sposata, che un vero e proprio desiderio. Quello che desiderava più di ogni altra cosa salire su un areo e volare.
In Ricordati di me di Gabriele Muccino, Giulia/Laura Morante è una donna ancora molto bella. Vive a Roma, ha un marito Carlo/Fabrizio Bentivoglio funzionario di una società finanziaria, ha due figli adolescenti, insegna in una liceo classico. Una vita piena, uno pensa. Un donna realizzata. Eppure in una scena Giulia piange immersa nel bagnoschiuma nel bagno della sua bella casa, pensando che ha fatto tutto ciò che una donna della sua età poteva fare tranne quello che voleva davvero fare: l’attrice di teatro. Il tempo e la vita famigliare si erano portati via le ambizioni di un tempo.
Ma cosa voleva realmente fare mia madre? Solo ora mi accorgo che non lo so. Almeno non lo so per davvero. Non gliel'ho mai chiesto. Anche lei ha fatto tutto ciò che una donna della sua generazione poteva (o doveva?) fare. Ma il resto (perchè, sono sicura, c’era un “resto”…) quello non lo so. Ed ora è troppo tardi. Perchè lei non c’è più.
Sono passati cinque anni da quel giorno di Maggio. E il devastante senso di colpa che provo non accenna ad andarsene. Per non averla capita abbastanza, amata abbastanza, per averla sempre data per scontata. Ma soprattutto per non averle neanche mai chiesto che cosa avrebbe davvero voluto fare nella vita. Ed ora è troppo tardi per dirle che ORA lo so cosa vuol dire, che ora la capisco, che ADESSO so come ci si sente. So che quella che chiamiamo MATURITÀ non è altro che una riduzione drastica delle nostre possibilità di scelta.
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