Se non avessi chiacchierato un po' con un mio alunno, forse non avrei visto Anonymous (2011), e non per il regista Roland Emmerich (a merito del quale, certo, non posso attribuire titoli come 2012 e The Day After Tomorrow, estranei ai miei interessi). In realtà, mi infastidisce questa attenzione morbosa all'identità biografica di un genio come William Shakespeare, su cui si indaga nel film. Ammantare di mistero la vita del Bardo per renderla più affascinante significa svicolare dal nocciolo del problema proprio mentre si pretende di affrontarlo. Shakespeare e Omero, come gli altri, pochissimi altri padri fondatori della cultura laica occidentale, non sono solo Shakespeare e Omero: sono tutto ciò che si è costruito sopra, il significato che hanno assunto le loro opere nel corso dei secoli, cosa sono diventate, a quali spin-off, diremmo oggi in termini cinematografici, hanno dato luogo vita. Non loro, ma come corpus di opere. Massimo Bontempelli raccontava di un uomo che gli mostrava i luoghi di Renzo e Lucia come se loro fossero davvero esistiti e che non aveva idea né di Manzoni, né di un romanzo chiamato I promessi sposi: è alla creazione di questi miti fondatori, ben più ampi dei nostri confini nazionali, che si deve l'importanza di questi versi, questi personaggi e queste immagini e di ciò che vi riposa sopra.
Io, che amo i percorsi periferici, la letteratura marginale, le possibili nuove linee, mi attengo a una storiografia del canone, sul tipo di quella nota anche in Italia per le opere di Harold Bloom, che può contare su diversi detrattori, ma pur in una tendenza agiografica, affronta il nodo cruciale di cosa sia il genio, dove risieda e come pesi sulla cultura successiva. Certo, poi sorgono problemi importanti quando si guardi all'essenza di questi pilastri: se è vero che noi, queste opere, le abbiamo e le abbiamo ricevute come insiemi unitari dotati di un significato autonomo, è pur sempre chiaro che qualcuno deve averle scritte, singolarmente o nell'insieme. La ricezione consapevole dei corpora avviene di solito quando ciascuno di questi mostra di rispecchiare un pensiero unitario che sopravanza il valore di un'opera in sé, di una persona in sé, di un significato autonomo. Da questo punto di vista, non possiamo dimenticare che l'etichetta di Omero, posticcia quanto si vuole, soffre della selezione del tempo: del cosiddetto ciclo omerico ci rimangono solo Iliade e Odissea, tutto il resto si è perduto, anche se spettri ineludibili rimangono nella letteratura greca successiva e, attraverso i tragediografi del V sec. ad Atene, è approdato alla modernità, quasi senza un creatore. Di contro, le opere teatrali, i sonetti e i poemetti di Shakespeare hanno l'aria di essere stati raccolti e inscatolati insieme sotto un unico nome, nonostante palesemente si ignori tutto, non tanto della persona di William Shakespeare, quanto invece del rapporto tra il cosiddetto "William Shakespeare" e queste opere.
Possiamo sopportare benissimo il fatto che queste opere non siano quelle scritte da "Shakespeare" perché noi siamo altri, altra è la nostra sensibilità: questo slittamento semantico è senz'altro il primo passo di una decontestualizzazione storica sulla loro genesi, ma parla di noi, del nostro attaccamento a una tradizione ed eventualmente della sua perdita di significato. Shakespeare e Omero attengono a ciò che con Braudel potremmo chiamare lunga durata, contro la storia legata agli avvenimenti, tra cui lo stesso atto creativo. Ma anche questo diventa mitologema e il compito dello studioso evenemenziale consiste nel renderlo storico, cioè restituire questi eventi alle categorie di spazio e tempo, oltre a quelle causali, in una sequenza di eventi che possa includere, spiegare e farci riconsiderare la genesi di ciò in cui ci riconosciamo. Anonymous di Roland Emmerich, di fatto si vuole sostituire a un'indagine storica, il suo problema, però, consiste paradossalmente nel fatto che propone una tesi fin troppo macchinosa, basata su tracce che, così come vengono presentate al pubblico nel film, sono poco meno che dilettantesche e impressionistiche (la dedica di Ben Jonson "a colui che chiamiamo Shakespeare").
Il regista - sulla sceneggiatura di John Orloff - costruisce un meccanismo ben oleato. Un narratore sale sulla scena di un teatro moderno, dopo aver attraversato le noie della modernità - così radicalmente simili a quelle del tardo Cinquecento elisabettiano - sale in scena e, dopo una boriosa e ruffianissima premessa sui valori dell'arte, presenta, a mo' di messa in scena didattica, un'ipotesi su come si sarebbero svolti i fatti. Buio in sala e subito la telecamera sale sulla scena, ricreando tra la scena e il pubblico una sorta di nuova quarta parete, oltre la quale il cinema sembra voler supplire alla forma e ai limiti di una rappresentazione teatrale. Da allora in poi, fino alla fine e alla pretenziosa e ammiccante conclusione, tutto è delegato all'immagine, ai retroscena culturali, alle trame di palazzo, allo scorrere parallelo di quando il presunto vero autore delle opere di William Shakespeare, il duca di Oxford, è lo splendido e giovanissimo amante della regina Elisabetta da una parte e quando è invece un nobile decaduto, che prova a convincere Ben Jonson a far rappresentare le sue opere sulla scena londinese. La storia di William Shakespeare, dunque, si popola di personaggi ben noti a chi ha letto un paio di libri in vita sua o ascoltato di sfuggita una delle mille opere che il melodramma ha regalato al periodo: Elisabetta I, i Cecil, James, il duca di Essex e quello di Southampton e così via.
Scusate, ma questo pasticcio di fonti diverse, di ipotesi e suggestioni non è storia: in Anonymous non c'è storia proprio perché vuol tirare le fila senza impegnarsi a dimostrare nulla o a districare le fila per lasciare lo spazio a una scoperta, anzi intrecciandole in una nuova trama. Ci sono tante intuizioni dietro questa trama di film, che ha dei momenti avvincenti, ma sono presentate come i guizzi di un narratore molto intelligente, che conosce il suo mestiere. E di mestiere, invece, ce n'è tanto in Anonymous. Dalla riproduzione più che accettabile della messa in scena nella Londra elisabettiana agli attori. Spicca per intelligenza e originalità la regina ormai anziana di Vanessa Redgrave: nella lunga, infinita galleria di Elisabette, l'attirce riesce - come poche - a tener insieme le fila di una donna tenace e determinata, maliziosa e dolce. Quest'Elisabetta un po' sopra le righe e inverosimile mi è piaciuta per la sua freschezza, che forse non è genuinità, ma raffredda un po' la tensione del film, restituendole al contempo sangue e vita. Certo, il suo personaggio così costruito contribuisce ad appiattire la storia e a farne un serbatoio di debolezze, ma non posso non dire che quanto abbiamo di indimenticabile in Anonymous si chiama proprio Vanessa Redgrave.
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