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Se fosse un colore avrebbe la classicità del Fumo di Londra; ed invece è un film, per giunta importante, vista la firma del suo regista, un abituè dei palmares festivalieri e da anni uno dei massimi umanisti del cinema mondiale.
Anche questa volta era annunciato come uno dei favoriti tra i film in concorso all’ultimo festival di Cannes ed invece a conti fatti “Another Year”, una storia corale incentrata sulle vicissitudini di una donna delusa dalla vita e sulle reazioni di chi le sta vicino, si dimostra un lavoro poco ispirato e soprattutto senza la naturalezza delle opere precedenti.
Leigh sembra più interessato alla costruzione della cornice piuttosto che allo sviluppo della storia. Avendo a che fare con una drammaturgia da teatro cechoviano, di cui riprende non solo il rapporto tra lo scorrere del tempo e lo stato d’animo dei personaggi ma anche una certa staticità nell’azione, il regista rende evidente le sue scelte dividendo la vicenda in quattro quadri corrispondenti alle omonime stagioni, utilizza la luce naturale ed anche quella artificiale, (nell’ultimo quadro, quello invernale desaturato dei colori primari per corrispondere all’atmosfera di dolore per una morte improvvisa) e si mantiene sempre all’interno di un cinema da camera, fatto di interni domestici e piani americani, saltuariamente interrotto dallo stesso campo lungo che, riprendendo scene di vita contadina sembra alludere al ciclo naturale della vita. Un allestimento tanto impeccabile quanto schematico che fa il paio con il dipanarsi di una vicenda che non esce fuori da un naturalismo privo di sorprese ed un fiume di parole che non aggiunge nulla a quello che vediamo.
Tra nevrosi ed insoddisfazione, il film procede capitalizzando la bravura dei suoi interpreti, specialmente quelli femminili ma si conclude senza nessuna variazione rispetto al punto di partenza.
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