La prima volta che Manlio mi ha lasciato non me n’è fregato niente. Era l’11 settembre 1996 e, con un certo imbarazzo, mi stava spiegando che durante le vacanze aveva incontrato il suo ex ragazzo, avevano parlato e, una cosa tira l’altra, si erano accorti di amarsi ancora. Buon per voi, che ti devo dire. Il fatto che il ragazzo in questione, Luigi, passasse l’estate dai suoi a Gela non aveva minimamente influito sulla decisione di Manlio di andare in vacanza proprio in Sicilia. E anche il fatto che a un certo punto Manlio l’avesse chiamato e si fossero visti era stato uno sviluppo del tutto imprevisto. Quel bacio al tramonto, con annesso giuramento d’amore eterno, era avvenuto assolutamente per caso. Diceva lui.
In realtà Manlio si guardava bene dal raccontarmi i dettagli, ma io me lo figuravo proprio così: bacio al tramonto sugli scogli di Gela e giuramento d’amore eterno. Solo che, nella mia immaginazione, poi arrivava uno tsunami che li spazzava via entrambi.
Siamo seduti sul prato nel parchetto di via Panama, che in effetti è solo un lembo particolarmente curato dell’immensa Villa Ada, arricchito da un bar con i tavolini all’aperto. In primavera gli alberi da frutto lo trasformano in un trionfo di fiori dai colori pastello, ma nel tiepido settembre romano siamo circondati solo da foglie che cominciano a sbiadire. Dopo i fasti della stagione calda, la natura si prepara all’arrivo di temperature più rigide. Proprio come me.
«Guarda, lo capisco.» Mentre parlo, fisso un punto imprecisato all’orizzonte e cerco di sembrare il più corretto possibile. Mi sforzo di avere una reazione matura e composta, ma dentro sto ribollendo: non me ne frega assolutamente niente che ci lasciamo. Niente. E comunque mi stai pure sul cazzo. Provo uno strano misto di sentimenti, uno di quei complicati turbinii emotivi pieni di contraddizioni che si provano solo a vent’anni.
Il problema è, innanzitutto, che quell’appuntamento alle tre del pomeriggio al parchetto di via Panama gliel’ho dato io, con l’intenzione di lasciarlo. O comunque di spiegargli che, durante il lungo viaggio da cui sono appena tornato, sono andato a letto con un numero imprecisato di ragazzi, e alla fine non ho più pensato a lui. Questo colpo di scena, però, mi innervosisce proprio. E a peggiorare la situazione c’è un sacchetto di cd che tengo ancora in mano. «Ah, li hai trovati?» dice lui notandolo, e perde ogni traccia d’imbarazzo.
La sera prima che partissi per gli Stati Uniti questo mio fidanzato nuovo di zecca mi aveva accompagnato a piedi fin sotto casa. E, insieme a una buona quantità di baci, mi aveva dato anche una lunghissima lista dei desideri, perché voleva che gli comprassi dei cd singoli usciti solo in America. «Non tutti, solo quelli che riesci a trovare.» Certo, non tutti, pensavo io, altrimenti il mio bagaglio al ritorno si ridurrà a un’unica cassa di cd. Ma alla fine qualcuno gliel’ho comprato, e ora mi ritrovo con quel sacchetto di Tower Records in mano. La ciliegina sulla torta della mia umiliazione: vengo qui a farmi mollare in tronco, e già che ci sono ti porto anche un regalo.
Non me ne frega niente che mi stia lasciando, ma in realtà mi frega. Ok, nelle ultime settimane ad Atlanta non è stato in cima ai miei pensieri, ma in fondo non ho mai perso la speranza che, tornando a Roma, la mia storia con lui potesse avere una possibilità. Come se quelle due assolate settimane di giugno passate insieme prima che me ne andassi fossero state una falsa partenza, l’anteprima di qualcosa di più grande che sarebbe potuto succedere dopo. A quanto pare, però, non ci sarà nessun dopo. «Ti va di restare amici?» mi domanda. «Ma certo, rimaniamo amici» (ti odio).
Più tardi, mentre guido il motorino verso casa, mi rendo conto che il turbinio emotivo di prima è confluito in un’unica, limpida sensazione: sono triste. Perché Manlio mi piace. Mi piace un sacco, ma per ricordarmelo ho dovuto sentire il suo odore.
Quella maledetta partenza per gli Stati Uniti mi aveva creato problemi fin dall’inizio. Prendermi qualche mese per passare del tempo in America era un sogno che coltivavo da tanto e, per l’estate dei miei vent’anni, ero finalmente riuscito a organizzarmi una vacanza-lavoro: attraverso un programma stagionale offerto dalla John Cabot University di Roma avevo ottenuto un visto per lavorare qualche mese negli Stati Uniti e l’indirizzo di una famiglia che mi avrebbe accolto. Avevo in mente di andare a San Francisco, sistemarmi in una casetta color pastello su una salita vertiginosa e contemplare da lassù la fresca estate della California settentrionale. Questo tizio della John Cabot che si occupava del mio progetto mi aveva però scoraggiato: «Ma no, che San Francisco! La vita lì costa tantissimo, e poi ci vogliono andare tutti, quindi è più difficile trovare una famiglia per farsi ospitare. Finiresti chissà dove, per carità! Perché non vai ad Atlanta invece?» mi aveva suggerito. Quell’anno ci sarebbero state le Olimpiadi e la città della Cnn e della Coca-Cola sarebbe diventata il centro del mondo. Con relative offerte di lavoro a palate. Che poi il mio lavoro sarebbe stato il cameriere, al limite il commesso, ma il miracolo delle Olimpiadi avrebbe fatto la fortuna di tutti, camerieri e commessi compresi.
Ero indeciso. Non sapevo nulla di Atlanta.
«Cosa c’è ad Atlanta?»
«Ah be’, un sacco di cose» rispose il tipo con nuovo slancio. «Vediamo… la Cnn, la Coca-Cola e poi… aspetta, ah sì, poi chiaramente è la città dove è ambientato Via col vento!»
Ecco. Se potevo passare qualche ora, non dico nella tenuta di Tara, ma almeno alle Dodici Querce sarei stato un ragazzo felice. «Eh no, questo no» ribatté lui perplesso. «Quei posti sono tutti inventati. Non esistono. Però c’è la casa dell’autrice del libro, come si chiamava…»
«Margaret Mitchell.»
«Ecco, sì: c’è la splendida dimora di Margaret Mitchell ancora perfettamente integra.» Magra consolazione, certo, ma comunque c’erano le Olimpiadi.
«E vabbè dai, facciamo Atlanta e non se ne parli più.»
«Perfetto! Hai fatto un vero affare, vedrai che non te ne pentirai!»
Avrei dovuto capire dal suo tono da venditore di auto usate che mi stava tirando un gran bidone. E invece me ne resi conto troppo tardi, quando misi piede agli arrivi dell’aeroporto Hartfield-Jackson di Atlanta. Mi pentii della mia scelta nell’istante in cui, tra la gente in attesa, vidi un uomo con il naso livido da avvinazzato e una barba rossa e lunga, con in mano un cartello con scritto «Clawdio». Non riuscivo a credere che si trattasse di me, perciò l’oltrepassai con lo sguardo e continuai a scandagliare la folla mantenendo un fragile sorriso di cristallo. Quando però la sala si svuotò e rimanemmo solo io e lui, l’uno di fronte all’altro, capii che era inutile illudersi: Clawdio ero io.
Ma il peggio doveva ancora venire: questo Uncle Bubba in camicia a scacchi e bretelle, che sembrava uscito da una puntata di Willy il Coyote, mi parlò un po’ di sé durante il tragitto in auto. Cercando faticosamente di interpretare le sue parole, distorte da un marcato accento del Sud, a un certo punto mi sembrò che dicesse «I’m single». «Ah, niente moglie? Niente bambini?» gli chiesi con un tono di voce troppo alto e il sorriso di cristallo pronto ad andare in frantumi. Niente, era single. La mia famiglia ospite era solo lui.
Il quartiere dove abitava non era male: casette di mattoni rossi e altre di legno colorato si alternavano su lunghi viali alberati e deserti. Era sera tardi e in giro c’era giusto qualcuno che faceva jogging sul marciapiede.
«Quella è casa mia» disse. Ma l’unica cosa che vedevo in direzione del suo sguardo era una specie di ranch abbandonato, con piante rampicanti ovunque e una fatiscente staccionata che qualche decennio prima doveva essere stata bianca. Io ero ammutolito dall’orrore, e trovai la forza di riaprire bocca solo una volta entrati, quando Bubba mi disse che la mia stanza era «di sotto». «Co… come di sotto?» «Eh già, le stanze da letto al piano di sopra sono tutte occupate da altri ospiti, quindi ti ho sistemato nel seminterrato.»
Mentre varcavamo quella porta – anzi, mentre scendevamo in quella botola – sentii affiorare una sensazione che provavo di rado: la paura. Se Uncle Bubba mi avesse chiuso dentro, nessuno sarebbe mai venuto a saperlo. Sarei potuto rimanere prigioniero per sempre e questo bel pensiero mi rimbombò in testa fino a notte fonda mentre, sdraiato sul letto con gli occhi sbarrati per via del fuso orario e del terrore, mi chiedevo se avrei mai più rivisto la luce del sole.
In quelle lunghe ore passate in bianco ripensai a Manlio. Manlio, il ragazzo che avevo conosciuto appena due settimane prima di partire, e che con il suo sorriso luminoso era riuscito a incrinare l’entusiasmo per un viaggio pianificato da anni. Perché l’avevo incontrato proprio alla vigilia della partenza? I pochi giorni passati insieme mi avevano fatto perdere la voglia di partire e adesso, nel buio della botola in cui mi aveva infilato questo probabile serial killer, rivivevo il mio primo appuntamento con lui.
Sdraiati sul prato di Villa Borghese, ridendo a crepapelle per la faccia del venditore di rose quando si era accorto che eravamo due maschi. In motorino sul Lungotevere per andare a prendere un gelato a Prati. E poi da Orbis a comprare i biglietti per il concerto di Alanis Morissette. Io al concerto non ci potevo andare perché sarei partito per Atlanta il giorno prima. Che cazzata enorme avevo fatto. Mi ero scavato la fossa con le mie stesse mani, nel seminterrato della casa di Uncle Bubba.
«Ormai non ti scappo»: era stato così che Manlio mi aveva salutato a fine serata sotto casa sua quando ci eravamo conosciuti. Anche se ero già cotto a puntino, avevamo passato solo qualche ora insieme e questa sua uscita di punto in bianco non me l’aspettavo proprio. Nella mia testa frullava di tutto: e adesso che faccio, lo bacio? Mi vergognavo troppo per farlo lì, accanto alla mia macchina, mentre sul sedile posteriore c’erano altri tre amici. E il fatto che due di loro si stessero già baciando avrebbe reso la cosa ancora più ridicola. Non lo bacio, allora. Ma se poi mi scappa? No, l’ha detto anche lui: ormai non mi scappa. L’intesa tra noi era stata troppo evidente perché la cosa potesse finire lì. Ma poi, appena misi in moto l’auto, avrei voluto prendermi a schiaffi da solo: come facevo a ritrovarlo se non gli avevo neanche chiesto il numero di telefono?
Il nostro incontro di quella sera era stato combinato, alla faccia di chi pensa che queste cose non funzionino. Il trucco sta tutto in chi organizza, e nel nostro caso ci eravamo messi nelle mani di un vero mago dell’appuntamento al buio: Daniele K.
Io e lui eravamo amici fin dal primo giorno della scuola media ed erano pochi quelli che mi conoscevano bene quanto lui. Eppure, quando mi propose di incontrare l’amico di una sua amica, gli risposi male. Primo, perché non mi andava giù l’implicito messaggio «siccome siete gay vi dovete incontrare e vi dovete piacere». E inoltre non ero ancora pronto ad ammettere che la mia precedente storia d’amore, quella che pensavo sarebbe durata tutta la vita, era invece arrivata a un punto morto. Era finita, schiacciata dall’insormontabile distanza tra Roma e Firenze.
Così, all’inizio avevo maleducatamente declinato l’offerta di Daniele K, facendogli notare che i ragazzi gay non sono carlini da far accoppiare, ed ero tornato a vegliare in silenzio la mia agonizzante relazione con Filippo, il mio ragazzo fiorentino di tre anni più giovane di me.
Approfittando del silenzio della notte però il mio inconscio, in modo del tutto non richiesto, aveva deciso di mettermi davanti a una realtà meravigliosa: questo Manlio aveva la faccia, la voce, il sapore di Filippo, c’era lo stesso amore, portava perfino la stessa camicia bianca con le maniche arrotolate, solo che abitava dietro casa mia. Ah, sì, perché, tra le poche informazioni che mi aveva dato Daniele K su questo mio presunto uomo ideale che lui stesso aveva incontrato appena una volta, c’era che abitava ai Parioli, vale a dire a un passo da me. Inoltre si trattava di un ragazzo allegro, che aveva viaggiato molto, che studiava Scienze della comunicazione e aveva una grandissima passione per la musica, «ma proprio un po’ fissato con i cantanti pop come sei tu. Per esempio gli piace Ivana Spagna». «Ivana Spagna? Daniele K, ma sei fuori? A me Ivana Spagna mi fa ridere.» In effetti io ascoltavo veramente di tutto, ma Ivana Spagna no, perché a un certo punto dei paletti bisogna pur metterli.
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