Avevo dieci anni. Ero nuovo, a scuola. Quando sono comparsi nel corridoio, non li conoscevo. ignoravo perfino il loro nome, cosa insolita in quella piccola scuola di appena duecento allievi, dove tutti imparavano velocemente a conoscersi. il loro passo era lento, sorridevano, non mostravano alcuna aggressività, tanto che in un primo momento ho pensato che venissero a fare conoscenza. Ma perché dei grandi venivano a parlare con me, che ero nuovo? il cortile nell’intervallo funzionava come il resto del mondo: i grandi non stavano coi piccoli. Mia madre lo diceva parlando degli operai Noi piccoli non interessiamo a nessuno, soprattutto ai grandi borghesi.
Nel corridoio mi hanno chiesto chi ero, se ero proprio io Bellegueule,1 quello di cui parlavano tutti. Mi hanno fatto questa domanda che in seguito mi sono ripetuto incessantemente per mesi, anni,
Sei tu il frocio?
Pronunciando queste parole, le avevano incise in me per sempre come uno stigma, come quei segni che i greci imprimevano con un ferro rovente o con un coltello sul corpo dei devianti pericolosi per la comunità. L’impossibilità di liberarmene. È la sorpresa che mi ha folgorato, anche se non era la prima volta che mi dicevano una cosa simile. Non ci si abitua mai all’offesa.
Un sentimento di impotenza, di perdita dell’equilibrio. Ho sorriso – e la parola frocio riecheggiante, mi esplodeva nella testa, palpitava in me con la frequenza del mio battito cardiaco.
Ero magro, dovevano aver calcolato che la mia capacità di difendermi era scarsa, pressoché nulla. a quell’età i miei genitori mi chiamavano spesso con il soprannome di Scheletro e mio padre ripeteva in continuazione le stesse battute Potresti passare dietro a un manifesto senza staccarlo dal muro. in paese, il peso era una caratteristica apprezzata. Mio padre e i miei due fratelli erano obesi, come parecchie donne della famiglia, e si diceva Meglio non lasciarsi ammazzare dalla fame, mangiare troppo è una malattia che fa bene.(L’anno dopo, stanco dell’ironia dei familiari sul mio peso, decisi di ingrassare. compravo dei pacchetti di patatine all’uscita di scuola con i soldi che mi regalava mia zia – i miei genitori non potevano darmene – e mi ingozzavo. Io che fino a quel momento mi ero rifiutato di mangiare i piatti troppo grassi che preparava mia madre, proprio per paura di diventare come mio padre e i miei fratelli – lei perdeva la pazienza: Non ti tappa mica il buco del culo, questa roba – proprio io mi sono messo improvvisamente a divorare tutto ciò che trovavo sulla mia strada, come quegli insetti che si spostano in nubi e fanno sparire paesaggi interi. Presi una ventina di chili in un anno.)
Hanno incominciato prima a spingermi con la punta delle dita, senza eccessiva brutalità, sempre ridendo, io sempre con lo sputo sulla faccia, poi sempre più forte, finché la mia testa ha urtato contro il muro del corridoio. io non dicevo niente. Uno mi ha afferrato per le braccia mentre l’altro mi tirava dei calci, sorridendo sempre meno, prendendo sempre più sul serio il proprio ruolo, con un’espressione di concentrazione crescente, di collera, di odio. Mi ricordo: i pugni nella pancia, il dolore provocato dall’urto fra la mia testa e il muro di mattoni. È un elemento a cui non si pensa, il dolore, il corpo che soffre all’improvviso, ferito, contuso. Si pensa – davanti a scene come questa, voglio dire: vedendole dall’esterno – all’umiliazione, all’incomprensione, alla paura, ma non si pensa al dolore.
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