Alexandra J. Forrest
L’ARTIGLIO DEL DRAGO
romanzo
Giappone, seconda metà del XVII secolo.Tokugawa Ieyasu, lo Shogun vincitore di Sekigahara, ha imposto la pace, ma non è riuscito a porre fine alle congiure e alle lotte di potere. In questo scenario complesso si intrecciano le storie di Hana-Ogi, misteriosa e affascinante, scelta per essere addestrata ad antiche e segrete tecniche di combattimento, Yoshiro, il samurai in lotta contro i soprusi, Christian van Damme, capitano e trafficante d’armi che si troverà, suo malgrado, coinvolto in una travolgente vicenda in un ambiente misterioso come il Giappone del XVII secolo, dove gli odi e le passioni si fondono all’interno di una cultura raffinata che conosce profondamente l’animo umano.
Nata ad Asti, dove risiede tuttora, Angela Pesce Fassio è un’autrice versatile, come dimostra la sua ormai lunga carriera e la varietà della sua produzione letteraria. Questo romanzo, uscito nel 1996 nella collana “Romantica” dell’Editrice Nord, col titolo di Mikado, era stato pubblicato sotto lo pseudonimo di Alexandra J. Forrest, l’alias senz’altro più usato dall’autrice.L’autrice coltiva altre passioni, oltre alla scrittura, fra cui ascoltare musica, dipingere, leggere e, quando le sue molteplici attività lo consentono, ama andare a cavallo e praticare yoga. Discipline che le permettono di coniugare ed equilibrare il mondo dell’immaginario col mondo materiale.I suoi libri hanno riscosso successo e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero.
Dal 23 marzodisponibile in formato eBook su Amazon e nelle principali librerie online
www.angelapescefassio.it
Nel Giappone del 1600, il senso della fugacità della vita permeava tutti gli strati della popolazione, non soltanto 1’aristocrazia.Il famoso generale Oda Nobunaga, che avviò l’unificazione del Paese poi condotta a termine da Toyotomi Hideyoshi, esprimeva questo sentimento attraverso delicate poesie. Sconfitto in duello da uno dei suoi subalterni, Nobunaga morì suicida all’età di quarantotto anni.Circa venti anni dopo, nel 1605, le incessanti guerre fra i vari signori feudali, i daimyo, erano virtualmente finite e Tokugawa Ieyasu da due anni governava il Paese come Shogun. Le lanterne illuminavano le strade di Kyoto e Osaka brillando allegramente, proprio come al tempo dello shogunato Ashikaga, e ovunque regnava un’atmosfera gaia e spensierata, perennemente festaiola.Tuttavia erano assai pochi coloro che s’illudevano che la pace sarebbe durata. Oltre un secolo di guerre civili aveva talmente inciso nella vita della gente che questa non poteva non considerare la presente tranquillità fragile ed effimera. La capitale prosperava e l’incertezza del futuro rendeva più acuta la voglia di divertirsi in modo sfrenato, per esorcizzare la paura del domani, di un futuro ignoto che non si sapeva cosa avrebbe portato.Ieyasu, pur avendo ceduto il titolo di Shogun al suo terzogenito Hidetada, seguitava a tutti gli effetti ad esercitare il potere, controllando gli altri daimyo. Da qualche tempo si diceva che il nuovo Shogun si sarebbe recato a Kyoto per fare visita all’Imperatore e rendergli omaggio. Sarebbe stata più che una visita di cortesia. Il suo maggior rivale al potere supremo, Toyotomi Hideyori, era figlio di Hideyoshi, successore di Nobunaga. Hideyoshi aveva fatto del suo meglio per assicurarsi che il potere restasse nelle mani dei Toyotomi fino a quando Hideyori non fosse stato in età da esercitarlo, ma il vincitore di Sekigahara era Ieyasu.Hideyori risiedeva tuttora al castello di Osaka, e Ieyasu, invece di toglierlo di mezzo, gli consentiva di godere di una cospicua rendita annuale, ben sapendo che Osaka avrebbe potuto diventare un focolaio di rivolta. Molti feudatari, consapevoli di ciò, corteggiavano e adulavano tanto Hideyori quanto lo Shogun. Era infatti risaputo che il giovane possedeva tali ricchezze da poter arruolare, se lo avesse voluto, tutti i ronin (samurai senza padrone) del Paese. Il futuro politico del Giappone era un’incognita gravida di drammi, ma era anche argomento di discussione nelle vie e nei locali di Kyoto; oziose chiacchiere di gente gaudente che non pensava ad altro che a spassarsela e poco o nulla si curava della partita in corso, che aveva per posta il potere supremo. In fondo non erano altro che pedine nelle mani dei loro signori.