di Daniela Manca. Così facevo rientro a Santa Sofia, meno serena di quando ero partita, col cuore diviso. Il tempo pareva disporsi a mutare, il viaggio era lunghissimo ma non mi dispiaceva, credevo di aver bisogno di quel tempo per consumare la mia tristezza, come se potessi digerirla o, avendo tempo a sufficienza, lasciare che si estinguesse da sola senza che io dovessi sforzarmi di sondarne le cause e le origini.
Giunsi a Santa Sofia nel tardo pomeriggio ma il cielo scuro lasciava credere a una notte anticipata. Non era freddo, era l’umido a rendere pesante l’aria.
Attraversando il paese dall’aspetto deserto non notai nulla di diverso rispetto a quando ero partita e questo mi confortò. Arrivata davanti al cortile di casa notai appena che la catasta di legna, che d’ordinario occupava una buona parte del cortile, era pressoché esaurita; restavano pochi grossi tronchi che evidentemente mamma non era stata in grado di spaccare o trascinare dentro. Non mi soffermai sulla cosa e mi affrettai a entrare.
La cucina era quasi buia, il fuoco spento; mamma era coricata in un lettuccio là in cucina, sembrava una bambina. Era realmente rimpicciolita e nell’abbracciarla sentivo le sue ossa simili a quelle di un uccellino. Feci luce, ma prima di dedicarmi a qualunque attività sedetti a lungo vicino a lei. Era pallida, gli occhi cerchiati e i capelli erano di un grigio spento, cenere bagnata. Ma prima e più di ogni altra cosa mi sorpresero le sue mani, schelettriche e bianche, lisce, con le unghie un po’ lunghe. Pensai che non avevo mai, fino a quel momento, viste intere le unghie delle sue mani. Ricordavo le mani di mamma come radici nodose e scure, indurite dalla fatica e con le unghie consumate e spezzate. Mentre mi tornavano alla mente le mani di Juanni costrette all’inattività, tenni a lungo le mani di mamma fra le mie, osservandole e studiandone ogni particolare. Mamma era curiosa di sapere dei nipotini, di Antonietta, della mia permanenza in città. Le raccontai molte cose mentre mi muovevo per la cucina, accendevo un poco di fuoco, e mi riapropriavo gradualmente degli spazi e degli oggetti di casa. Mamma si sforzava di seguirmi con lo sguardo ma si stancava presto e allora giaceva immobile con gli occhi chiusi ma non voleva che smetessi di parlare; a momenti doveva soffrire molto e i suoi lineamenti si alteravano per il dolore.
Tornai a sedermi vicino a lei che non smetteva di esprimere la sua contentezza per avermi nuovamente lì vicino.
Fuori era ormai buio quando intavvidi la sagoma di una testolina passare davanti alla finestra, poi la porta venne dischiusa e un bimbetto entrò, era Manueli, uno dei figli piccoli di Virginia, poteva avere cinque o sei anni. Guardò nella stanza e, vedendo che mamma non era sola, posò un pentolino sul tavolo e senza una parola tornò alla porta. Mamma lo richiamò: “Manue’, vieni che c’è dietedda Battistina; non saluti?”
Manueli mi guadò con occhi da furetto, fece un cenno di saluto con la mano e scappò via nel buio. “Ha fatto così perché è un po’ timido e ha visto te, di solito entra e mi tiene un po’ di compagnia; poveretto, è così premuroso, ora mi ha portato la minestra che Virginia ha preparato. Cosa puoi pretendere da lei, pover’anima, avrebbe bisogno di aiuto anche lei veramente… Manda da me i ragazzini, ma cosa vuoi, solo Manueli riesce a farmela arrivare intatta anche se ha più fame lui di me, gli altri, poverini, la mangiano per strada.”
“Be’, sarà per provarla di sale.” Scherzai io.
“Sicuro!” Acconsentì lei “E’ scappato via per timidezza…” mi disse di nuovo.
Fatto sta che quella sera per cena ci toccò dividere la minestra che provvidenzialmente Virginia aveva affidato a Manueli; ero troppo stanca per cucinare altro e ben presto si andò a dormire. Mamma espresse il desiderio di riposare in camera sua dopo tanto tempo, così la aiutai a salire la ripida scaletta in legno, a sistemarsi e poi mi coricai nel mio letto, nella cameretta adiacente.
Più che nel sonno, scivolai in un sogno agitato e confuso nel quale sfilavano immagini dell’ultimo anno in città: Antonietta e le amiche; Gaetano al lavoro nel suo ufficio; Giacomo e Alfredo; Lughia; manueli che mi consegna una lettera di Juanni; Leonora e Lughia che si scambiano formule e pozioni; Gaetano che mi recita dei versi; Juanni che piange in silenzio osservandosi le unghie. Poi Giacomo e Alfredo piangono e si lamentano, io cerco di raggiungerli ma non riesco a trovarli, il pianto continua, è straziante, ma non posso vederli. Li chiamo per nome ad alta voce, non rispondono e chiamano, anch’io piango di disperazione…
Mamma mi svegliò chiamandomi per nome e accarezzandomi il viso inondato di lacrime; mi misi a sedere prendendo coscienza dei luoghi. Sentivo ancora i bambini piangere ma vedevo solo mia madre bambina, in sottoveste che mi parlava per confortarmi: “Battisti’, Battisti’… Sei a casa, stai tranquilla, quelli che senti sono i versi dei gatti in amore.” Ma non riuscivo a convincermene allora con un grande sforzo si portò alla finestrella spalancandola e mise in fuga i gatti. Solo allora mi lasciai persuadere che i bambini non mi chiamavano.
Mi alzai a bere un po’ d’acqua, aiutai mamma a rimettersi a letto e uscii per andare al cesso. Il cielo era chiuso e tutto era immerso nella nebbia. Tornai a letto ancora spaventata, la nebbia avvolgeva e isolava ogni cosa, escludendola alla vista. Mi sentii un pochino più a mio agio, come se la nebbia avesse il potere di far sparire e non solo di occultare la città e il tortuoso cammino che conduceva fin là, insomma tutto quello che esisteva oltre Santa Sofia. Attraverso la copertura sconnessa riudivo, dopo tanto tempo, il cane di zio Caietano che abbaiava in risposta al cane di zia Felìcita, nel rione più avanti.
Mi calmai pian piano, poi venne la pioggia, quella lenta e greve, duratura, portata dai venti bassi ( scirocco) che con intensità costante sarebbe durata per più giorni a isolarmi da tutto.
Pensai a Genna ‘e Monti che dominava l’abitato, presto o tardi Juanni sarebbe tornato e da lì avrebbe vegliato il mio sonno, mi dissi, e confortata da questo pensiero mi abbandonai a un sonno quieto e triste.
(***)
Mamma morì dopo qualche mese, ma in quel periodo non le feci mai mancare il conforto di un bel fuoco sempre acceso e i pasti caldi; soffriva si, ma era straordinariamente lucida e serena. Alla fine, come lei stessa mi disse in uno degli ultimi giorni, era veramente stanca; non aveva più alcuna voglia di vivere e continuare a soffrire in quel modo. Piansi amaramente alla sua morte, ma, a parte la nostalgia e il rimpianto inevitabile per quello che ancora non mi aveva detto o che avrei voluto risentire della sua vita e della sua esperienza, mi rendevo ben conto che era per me che piangevo. Mi spaventava la mia solitudine, il mio futuro che non sapevo immaginare. Per quanto riguardava mamma ero invece serena, la immaginavo, nel paradiso, abbracciata appassionatamente a babbo come li avevo visti una volta da bambina.
Tratto da “Antica Giovane” di Daniela Manca, Autore Libri, Firenze.
Nota redazionale: auguri a tutte le mamme!
Featured image, Affetto materno (1869) di William-Adolphe Bouguereau (1825-1905).