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Antigone di Sofocle alle rappresentazioni classiche di Siracusa
Creato il 10 giugno 2013 da SpaceoddityVittorio Alfieri, Antigone
La famiglia di Antigone è maledetta: la ragazza ha perso i genitori e poi i fratelli: questi, Eteocle e Polinice, che si erano accordati per spartire il governo di Tebe un anno ciascuno, si sono uccisi l'un l'altro alle porte di Tebe. Creonte, lo zio, vuol dare sepoltura all'uno, lasciando l'altro in balia di uccelli e cani randagi: Polinice, infatti, era entrato in guerra contro Tebe, poco importa se nella sua rabbia ci fosse del giusto per il fatto che Eteocle non aveva rispettato il patto, prolungando il suo regno oltre il primo anno. La città ha di fatto subito un oltraggio e l'oltraggio deve essere riparato. Tutti - il figlio Emone, Antigone stessa, il coro - provano ad avvisare Creonte dell'empietà che si cela dietro quella punizione, ma l'uomo è irremovibile, difende strenuamente il potere e la legge che ne è emanazione. Antigone invece si basa su altre leggi, quelle che scaturiscono dalla sua fede, e intende rendere gli onori a entrambi i fratelli, senza preoccuparsi di chi avesse agito bene e chi male sulla terra. Le leggi a cui si inchina la ragazza non sono scritte da nessuna parte, ma la loro autorevolezza si oppone al potere di Creonte. La ragazza conosce bene la maledizione che incombeva sulla stirpe dei labdacidi, la porta stretta a sé, pur volendosi liberare del peso coattivo di una condanna insensata, ma questo non la esime dall'attenersi ai suoi doveri religiosi.
Sta tutta qui l'Antigone (442 a.C., tit. or. Ἀντιγόνη) di Sofocle: nel principio da cui trae origine e forza il nostro dovere. La donna lo dice chiaramente, non è a quelli di quassù che dobbiamo piacere, bensì a quelli di laggiù, perché passeremo più tempo da morti che da vivi. La sua fede è una vocazione al martirio, però Antigone è viva e ama la vita, vorrebbe conoscerne le gioie, rimpiange di morire vergine (in poche altre opere come in questa il tema delle nozze ricompare con tanta frequenza e con un simile spessore), soprattutto sa che di questo è fatta la sua vita. Nella tragedia della giustizia per eccellenza, la protagonista non si pone il problema della giustezza del comportamento dei suoi fratelli: la predilezione per loro dipende dalla consanguineità, dall'appartenenza a una medesima stirpe, sia pure a una maledetta. Tragedia importantissima dell'amore e della morte, l'Antigone di Sofocle è un'opera che risente in pieno della sofistica e del clima pericleo e mostra due diversi approcci retorici e sulla loro inconcludenza di fronte al definitivo annientamento che gli dei ci riservano.
La messa in scena di Cristina Pezzoli per le rappresentazioni classiche dell'INDA a Siracusa ha proprio il compito di guidare lo spettatore lungo i tortuosi ragionamenti contrapposti e spiace vedere tanti malumori attorno a uno sforzo senz'altro impegnativo. Poche regie hanno ricevuto critiche più aspre e più compatte di questa, a partire dall'uso delle voci e dei microfoni (che a me hanno dato molto più fastidio nell'Edipo re), soprattutto tenendo conto che la dimensione prediletta qui era proprio l'ascolto. Va detto subito che non condivido affatto molte rimostranze di cui ho letto e sentito. È vero che l'allestimento perde talvolta di gusto e di senso e scivola in almeno un paio di casi nell'involontaria comicità: citerò, tra tutti, il primo stasimo cantato con lo spirito di un'osteria, nonostante l'inventiva musicale di Stefano Bollani (del resto inadatta alla grandiosità dei versi sofoclei), e la morte grottesca di Creonte. Ed è vero anche che il taglio completo di due stasimi mi lascia piuttosto perplesso, ma va anche detto perlomeno che il testo curato da Anna Beltrametti, esente da ansie di sterile fedeltà all'originale, trova soluzioni davvero eleganti e, in certi casi, ottime: il refrain di Antigone di fronte ai Tebani, lo so, nel cammino verso la sepoltura fa davvero rabbrividire per la capacità di sintesi in merito alla consapevolezza tragica della protagonista.
Anche sulla concezione scenica si potrebbe trovare una coerenza interna rara in altri, più blasonati, spettacoli. Lo spettacolo si sviluppa in uno spazio invaso dalle sette porte di Tebe, tutte divelte e accatastate tranne una, e sembra voler riportare in scena l'intera saga. Non trovo, dunque, niente di strano nell'introduzione alla vicenda da parte dell'ombra di Giocasta (Natalia Magni, che peraltro ha una voce bellissima). Sembra che lo sforzo di Cristina Pezzoli sia stato proprio quello di non perdere niente, anche a costo di qualche occasionale perdita dell'orientamento (come nel secondo stasimo), del resto non fatale. Quanto agli interpreti, l'Antigone di Ilenia Maccarrone non ha il temperamento che ci si attende e nel primo dialogo con Ismene (la splendida Valentina Cenni) si fatica a fare il tifo per lei, però non è priva di fascino e sa tirare fuori la grinta all'occorrenza. Certo, il suo diretto interlocutore è il Creonte ormai consolidato di Maurizio Donadoni, a cui forse si può rimproverare la mancanza di originalità, ma non la ricchezza di immediati tratti definitori. Il personaggio di Antigone c'è - e non è poco - e riesce a districarsi anche rispetto al messaggero spigliatissimo (a mio avviso troppo e ingiustamente osannato per contrasto) di Paolo Li Volsi. Semmai, alla protagonista, in una tragedia incentrata sulla donna/dovere etico e sul suo rapporto con l'uomo/potere, si affianca poi il Tiresia di Isa Danieli: a parte l'ottima interpretazione, mi sembra un'idea eccellente recuperare qui una sorta di preespressività estatica e ricettiva della figura dell'indovino, nonché la sua natura anfibia e "transgender". Nel complesso, direi che sullo spettacolo di Cristina Pezzoli si può discutere molto, ciò non toglie che sia una parola nuova detta in merito all'Antigone di Sofocle e un'occasione insostituibile - e sempre piacevole nello splendido teatro di Siracusa - con la tragedia greca in generale.
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