di Marco Grassano
Čechov in un ritratto di Osip Braz (da Wikipedia)
Qualche settimana fa, ho avuto modo di vedere in televisione il bel film di Radu Mihăileanu Il concerto. La pellicola mi ha fatto ridere e piangere, perché toccava alcuni miei vissuti personali (ne parleremo, magari, un’altra volta), ma anche grazie al magnifico Concerto per violino e orchestra di Pëtr Il’ič Čajkovskij, che ne costituiva il tema (non solo musicale) portante. A proposito della sua avventurosa e toccante esecuzione a Parigi da parte di un gruppo di orchestrali epurati trent’anni prima da Breznev, si usava l’espressione “anima slava”. Ecco, direi che in ciò possiamo individuare un notevole punto di contatto tra Čajkovskij e Anton Pavlovič Čechov, grande scrittore attivo negli stessi anni. I due peraltro, secondo quanto emerge dalla corrispondenza intercorsa, si stimavano reciprocamente non poco.
Non sono né un musicologo né un musicista, purtroppo. Tuttavia, la mia curiosità, e le mie orecchie, mi hanno permesso di sapere quanto segue. Čajkovskij compose il Concerto nel 1879, in Svizzera, dove si era rifugiato per sfuggire alle grinfie di una moglie che rischiava di farlo cadere in grave depressione. L’opera si apre con una breve introduzione dell’orchestra, un andamento “pastorale” per certi versi affine ad alcune battute d’esordio della Sesta sinfonia di Beethoven. Ma i riferimenti del compositore russo, più che alla musica tedesca o alle ecloghe virgiliane (“Titiro, tu riposando alla cupola vasta di un faggio, / mediti un canto silvestre sulla sampogna leggera…”: cito nella bella traduzione isometrica di Carlo Saggio), attingono alle stesse radici che fecero scrivere a Čechov, pochi anni dopo la prima esecuzione del Concerto (1881; i racconti cechoviani cui qui faremo riferimento sono stati scritti nella seconda metà di quegli stessi anni Ottanta del XIX secolo), un testo quale Lo zufolo (“Melitòn si trascinava verso il fiume e ascoltava come alle sue spalle morivano poco a poco i suoni dello zufolo del pastore. Aveva tuttora voglia di lamentarsi. Gettava tristemente occhiate ai lati e cominciava a sentire una intollerabile pietà del cielo, e della terra, e del sole, e del bosco, e della sua cagna, e quando la nota più alta dello zufolo volò strascicando nell’aria e prese a tremare, come la voce di un uomo piangente, egli provò un senso oltremodo forte di amarezza e di offesa per il disordine che si notava nella natura”).
L’ottimo traduttore Alfredo Polledro, nella prefazione al quinto volume dei Racconti, annota: “La steppa e Lo zufolo ci trasportano in seno al vasto polifonico mondo della bellezza naturale: un mondo sentito e interpretato da Čechov con un suo lirismo originale, arditamente immaginoso, impressionistico e sintetico…”.
Ed eccoci arrivati appunto a La steppa, il primo racconto lungo del medico-scrittore russo, un testo di oltre cento pagine che reca come sottotitolo “Storia di un viaggio”. L’avvio è un sobrio omaggio al “maestro” Nikolaj Vasil’evič Gogol’: “Da N., capoluogo distrettuale della provincia di Z., un giorno di luglio partì di buon mattino e corse via con fracasso per lo stradone postale uno scortecciato calesse privo di molle, uno di quei calessi antidiluviani sui quali viaggiano in Russia soltanto i commessi dei mercanti, i grossisti e i preti non ricchi”. (Così cominciavano infatti Le anime morte: “Nel portone di un albergo della città di NN, capoluogo di governatorato, entrò una piccola carrozzella a molle, piuttosto bella, di quelle in cui di solito viaggiano gli scapoli: tenenti colonnelli a riposo, capitani in seconda, proprietari con circa un centinaio di anime di contadini, in una parola, tutti quelli che si è soliti definire signori di medio calibro”).
Il calesse di Čechov trasporta il ragazzino Jegoruska che va in una città più grande per studiare. Lo accompagnano lo zio e il pope. Lasciate indietro le case e i capannoni, i viaggiatori si addentrano nel vasto paesaggio della steppa, che dà il titolo al racconto. Apparentemente monotona e sempre uguale a se stessa, ma in realtà piena di stimoli visivi e sonori che pervadono di grande incanto e suggestione il racconto: del resto quasi impossibile da riassumere, data l’estrema tenuità dell’azione.
Un brano, a mo’ di esempio: “La segala mietuta, le erbacce, l’euforbia, la canapa selvatica, tutto ciò che s’era fatto bruno per la calura, rossiccio e semimorto, lavato adesso dalla rugiada e accarezzato dal sole, si rianimava, per fiorire daccapo. Sopra la strada, con giocondi gridi, volteggiavano i colombi di mare, nell’erba si chiamavan fra loro gli spermofili [Spermophilus ritullus, un grazioso roditore: n.d.r.], in qualche posto lontano a sinistra piangevano i vanelli. Uno stormo di pernici, spaventato dal calesse, si levò in aria e col suo dolce ‘trrr’ volò verso le colline. Le cavallette, i grilli, le cerambici e le grillotalpe intonarono nell’erba la loro stridula, monotona musica. Ma passò poco tempo, la rugiada evaporò, l’aria s’intorpidì, e la steppa delusa prese il suo aspetto accasciato di luglio. L’erba si chinò al suolo, la vita tramortì. Le colline arse, di un verde bruniccio, in lontananza violacee, coi loro toni calmi come l’ombra, la pianura con lo sfondo nebbioso e il cielo capovolto su di esse, che nella steppa, dove non ci son boschi né alte montagne, sembra paurosamente profondo e trasparente, apparivano ora interminabili, irrigidite dall’angoscia… La musica nell’erba si è chetata. I colombi di mare sono volati via, le pernici non si vedono più. Sopra l’erba avvizzita, non sapendo che fare, volteggiano le gracchie; esse sono tutte simili l’una all’altra e fanno la steppa ancor più uniforme. Vola un nibbio proprio rasente al suolo, battendo agilmente le ali, e all’improvviso si arresta nell’aria, come si fosse messo a pensare al tedio della vita, poi scrolla le ali e come una freccia fila via sopra la steppa, e non si capisce perché voli e che cosa gli occorra. E in lontananza un mulino agita le ali…”
Avanzando, lo scrittore evoca il cielo al crepuscolo e la sensazione di sbigottimento che esso suscita nell’animo del viaggiatore: “Ma volgi un’occhiata al cielo di un verde pallido, disseminato di stelle, dove non c’è né una nuvoletta, né una macchia, e capisci perché l’aria tepida è immobile, perché la natura sta in guardia e teme di muoversi: le è penoso e le rincresce perdere anche un sol attimo di vita. Della profondità immensa e della vastità senza confini del cielo si può giudicare soltanto in mare, e nella steppa di notte, quando splende la luna. Esso è pauroso, bello e accarezzante, ha un aspetto languido e invita a sé, ma la sua carezza ti dà il capogiro”; “Quando per lungo tempo guardi il cielo profondo, senza staccarne gli occhi, i pensieri e l’anima, chi sa perché, si fondono nella coscienza della solitudine. Cominci a sentirti irrimediabilmente solo, e tutto ciò che prima consideravi vicino e familiare diventa infinitamente lontano e privo di valore. Le stelle, che già da migliaia di anni guardano dal cielo, il cielo indecifrabile stesso e la foschia, indifferenti alla breve vita dell’uomo, quando resti con loro a quattr’occhi e cerchi di penetrarne il senso, opprimono l’anima col loro silenzio; ti viene in mente la solitudine che attende ognuno di noi nella tomba, e l’essenza della vita ti appare disperata, orribile…”.
La steppa sotto un cielo fosco(da freeforumzone.leonardo.it)
Più oltre, troviamo una descrizione dei prodromi di un temporale, e del temporale stesso, che anticipa di più di sessant’anni certi notturni de Il Signore degli Anelli: “E quelle persone, e le ombre attorno al fuoco, e le balle scure, e i lampi lontani che ogni momento balenavano all’orizzonte, tutto gli appariva adesso selvaggio e pauroso”; “A sinistra, come se qualcuno avesse sfregato sul cielo un fiammifero, apparve e si spense una pallida strisciolina fosforescente. Si udì in qualche punto molto lontano qualcuno andar su e giù sopra un tetto di ferro. Probabilmente su quel tetto si camminava a piedi scalzi, perché il ferro brontolò sordamente”; “Un tuono rumoreggiò con ira, rotolò per il cielo da destra a sinistra, poi tornò indietro e morì vicino ai primi carri”; “Ad un tratto proprio sopra la sua testa il cielo si squarciò con uno schianto pauroso, assordante; egli si chinò e trattenne il respiro, aspettando che sulla sua nuca e sul suo dorso si spargessero delle schegge. Echeggiò un nuovo colpo, altrettanto forte e tremendo. Il cielo non rintronava, non rimbombava più, ma emetteva dei suoni secchi, crepitanti, simili allo scricchiolio di un albero secco”.
Alla fine del viaggio, il ragazzino viene lasciato in casa di una vecchia amica della madre, che si dovrà occupare di lui nei prossimi anni. Aperta ai dubbi e segnata dalla precarietà di ogni cosa, come del resto lo è la vita, la conclusione: “Jegoruska sentì che con queste persone era per lui scomparso per sempre, come fumo, tutto ciò che aveva vissuto sino ad allora; si lasciò cadere, spossato, su una panchina e salutò con lacrime amare la nuova vita, sconosciuta, che stava ora cominciando per lui… Come sarebbe stata questa vita?”.
Eduardo Galeano, nel suo I figli dei giorni – un “diario per un anno” assai particolare, insolito diciamo – annota al 29 gennaio: “Oggi, nel 1860, nacque Anton Čechov. Scrisse come se non dicesse niente. E disse tutto”. Nessuna miglior definizione, nella sua estrema sintesi, per l’uomo che ha saputo creare, con apparente noncuranza, pagine come quelle da cui abbiamo tratto i brani riportati sopra. E nessun miglior invito a leggere per esteso le sue opere. “Adesso. Potete”, per parafrasare una celebre pubblicità.