L’ho velocemente letto ieri sera: il completamento della storia tragica del popolo armeno nel 1915-1922, cominciata con La masseria delle allodole. La scrittura è migliore, il ritmo è affievolito: ma al posto della narrazione – anche stavolta – abbiamo troppo spesso soffocanti commenti. Il finale – il “grande fuoco di Smirne” – è l’unica cosa degna letterariamente di nota, come inventiva e capacità descrittiva. Tutto il resto è noia: e dà voglia di rileggere Middlesex di Jeffrey Eugenides, di tutt’altro spessore già solo nella parte dedicata alla fine dell’Impero. E poi, se parliamo di contesto storico, la mia impressione è che la Arslan – ossessionata com’è dalla rivendicazione del “genocidio armeno” a tutti i costi - non sia assolutamente in grado di capire cos’è successo in quella fase storica: parla di “vendetta” per l’invasione subita dall’esercito greco, non coglie la follia di quell’avventura che in fin dei conti sembra giustificare (“un’illusione, un sogno temerario e romantico”), non si rende conto che i turchi in realtà combatterono per l’indipendenza e la sopravvivenza, liquida con una frasetta e la brutalità di due turchi profughi dalla Bulgaria il trauma determinante delle espulsioni di massa (“con tutti quei miserabili profughi che è toccato nutrire”) – pulizia etnica ante litteram – subita dai musulmani dopo le guerre balcaniche del 1912-1913 e la perdita definitiva di quel che restava della Rumelia (con Salonicco, la città natale di Mustafà Kemal poi Atatürk). Peccato.
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