Antonio De Ferrariis, un antropologo ante litteram
25 marzo 2013 di Redazione
il “De Situ Japigiae”, caratteri generali
di Riccardo Viganò
«Lettore, presta attenzione: ti divertirai»
(Apuleio, Le metamorfosi, I)
Nel primo decennio del ‘500 il celebre medico ed umanista salentino Antonio De Ferrariis (1444-1517), noto in ambito accademico col nome di “Galateo” in ricordo di Galatone, sua città natale, scriveva la sua più importante opera letteraria ovvero il “ De situ Iapigiae”. Il lavoro gli era stato commissionato dall’amico Giovan Battista Spinelli, conte di Cariati e importante funzionario del Viceregno di Napoli, affinché re Ferdinando “il Cattolico” potesse meglio conoscere i suoi nuovi domini.
Edito per la prima volta in forma stampata nel 1558 a Basilea, l’opera è una sorta di relazione descrittivo-geografica della Iapigia (Salento). Seppur scritta aulicamente, la narrazione è strutturata in una sorta di forma diretta, quasi confidenziale, dove la controparte è sempre l’amico committente. L’importanza storica di questo lavoro scaturisce dalla profonda conoscenza del territorio salentino nel quale l’autore è nato e vissuto per un certo periodo e perciò, indubbiamente, l’opera rappresenta una vera e propria testimonianza diretta e coeva di quanto il De Ferrariis scrisse in merito alla geografia e alla storia del luogo. Il Galateo dall’alto della sua grande erudizione, tra l’altro, non si limitò solo a proporre una descrizione minuziosa di ciò che era la Iapigia del tempo ma, sistematicamente, approfondisce ciò che riporta rifacendosi agli autori antichi.
Accanto al lavoro storico-descrittivo del territorio, l’autore compila una terza parte dell’opera nella quale accanto all’osservazione del costume e delle tradizioni locali segue una riflessione che, non arditamente, ha i caratteri dello studio etno-antropologico. Egli, difatti, attira l’attenzione del lettore anche sulle “superstizioni” cercando di dare, con occhio scientifico e con un velo di critica verso il carattere inquisitorio della Chiesa, una spiegazione logica e pratica dei fenomeni come le cosiddette “mutate” e, persino, fantasmi che l’immaginario e la credulità collettiva affermava essere presenti nelle paludi della sua nostalgicamente amata Nardò o di altri centri importanti del Salento.
Antonio De Ferrariis, dunque, nel trattare l’argomento dimostra palesemente che l’accostamento allo studio delle credenze popolari, e quindi dell’ambiente sociale, non può prescindere dalla “scientificità” del ragionamento razionale e, perciò, i capisaldi delle superstizioni o delle credenze derivanti non possono risolversi in un ambito di cultura popolare – plasmato dai dettami della Chiesa – ma con la rigorosità intellettuale che proviene principalmente dalla cultura profusa dagli studi severi.
(segue)
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