Antonio de Ferrariis, un antropologo ante litteram del XVI secolo
4 aprile 2013 di Redazione
Il tarantismo nel “De situ Japigiae”
di Riccardo Viganò
Al Galateo non sfugge l’osservazione del fenomeno del tarantismo che egli definisce una vera e propria “calamità” per il popolo salentino il quale è vittima di «una specie di ragno pericolosissima». Al fine di confutare ogni dubbio circa la manifestazione del fenomeno, ovvero dimostrare che non è una superstizione bensì un fatto reale, il De Ferrariis testimonia di essere stato lui stesso osservatore di un caso tanto da dichiarare che il dubbio sarebbe lecito «se non lo avessi visto di persona, facendone esperienza moltissime volte». Lo stesso autore, inoltre, non esprime alcun dubbio sul metodo curativo di tale patologia tanto da dire che «gli effetti del […] veleno possono essere inibiti dal suono dei flauti e dei tamburelli» così come lo stesso ha potuto riscontrare durante lo studio dei suoi amatissimi testi antichi «se non avessi letto in Aulo Gellio esservi alcuni serpenti il cui veleno è reso inefficace dal canto e dal suono dei flauti: «est etiam ille malus Calabris in montibus [Serre Salentine] anguis».
È cosi, quindi, che il Galateo pur rimanendo figlio del suo tempo e della sua terra, dimostra di essere un attento osservatore capace di assumere le qualità di medico, scienziato, umanista e antropologo evidenziando, come lui stesso afferma, di essere “ nemico dell’ignoranza” e che “facilmente tollerava che fosse vinto dalla ragione”.
Si riporta di seguito un estratto del De Situ Japigiae nel quale sono riportate le parole del Galateo in merito agli argomenti trattati in questo articolo e nei precedenti:
«Questa provincia genera gente assai tranquilla e per nulla assetata di sangue umano, ma ad alcuni sembra che la natura abbia guastato questi suoi tanto pregevoli doni, di cui ho parlato. Essa infatti fece nascere qui una specie di ragno pericolosissima, gli effetti del cui veleno possono essere inibiti dal suono dei flauti e dei tamburrelli: non lo avrei ritenuto possibile, se non lo avessi visto di persona, facendone esperienza moltissime volte, e se, confortato dall’autorevolezza di Teofrasto, non avessi letto in Aulo Gellio esservi alcuni serpenti il cui veleno è reso inefficace dal canto e dal suono dei flauti: «est etiam ille malus Calabris in montibus anguis»
«Le paludi del territorio di Nardò non sono malsane. Infatti non producono alcuna esalazione o solo poche e comunque non nocive. In estate tutto è asciutto, nulla resta di quell’umidità fangosa, pesante e palustre, ma soltanto quanto serva a rendere i campi più fertili. In queste paludi, così come avviene tra i campi di Manduria, di Baleso e di Copertino, è dato vedere talvolta certi miraggi, che chiamano mutazioni o mutate. Il popolino favoleggia di non so quali streghe o lamie o, come le chiamano a Napoli, janare o, come dicono Greci, nereidi. Questa diceria si sparse per tutta la terra e trasse in errore le persone povere e sprovvedute. Senza che vi sia chi possa confermarlo con certezza, senza che si adduca alcun ragionamento plausibile, senza alcuna prova che lo documenti, ognuno presta fede a cose che non ha visto né sono vere. Ci atteniamo alle altrui dichiarazioni e alle testimonianze di gente ignorantissima; crediamo a puerili fantasticherie e a senili vaneggiamenti, dando più peso all’udito che alla vista. Non si trova nessun testimone oculare, tutti ammettono di averlo udito da altri. Da quante tenebre è avvolto il genere umano, nato per la menzogna, al quale la verità è stata sempre odiosa. Quanta oscurità ottenebra gli animi degli uomini, sotto altri aspetti razionali e divini, al punto che non senza ragione qualcuno potrebbe ritenere che tutte le cose umane sono assai simili a questi miraggi di cui parlerò. Alcuni sono convinti dell’esistenza di certe donne malefiche o piuttosto diaboliche che, spalmatesi di unguenti, di notte assumono l’aspetto di animali diversi e vanno errando, o piuttosto volando per terre lontane, raccontando quanto lì avviene; eseguono in circolo danze per luoghi paludosi e si incontrano con i demoni; entrano ed escono da porte chiuse e fessure; uccidono i bambini e compiono non so quali altre stranezze. E ciò che fa restare soprattutto stupefatti è che sono state emanate a riguardo delle gravissime condanne da parte dei pontefici. Simile a questa è la credenza nei vampiri, che ha invaso l’intero Oriente. Dicono che le anime di coloro che vissero scelleratamente, sono solite volar via dai sepolcri in forma di globi di fuoco, apparire ai conoscenti e agli amici, cibarsi di animali, succhiare il sangue dei bambini e ucciderli, quindi ritornare nelle loro tombe. La gente, superstiziosa, dissotterra le sepolture e, lacerato il cadavere, ne estrae il cuore, lo brucia e getta lontano la cenere ai quattro venti, cioè alle quattro parti del mondo: crede che in tal modo si ponga fine a quel flagello. E sebbene si tratti di una superstizione, tuttavia ci dimostra quanto siano implacabilmente odiati tutti coloro che condussero un’esistenza malvagia, sia da vivi che da morti. Simile è anche il racconto di Ermotimo di Clazomene raccolto da Plinio e quello sul sepolcro stregato riportato da Seneca; né mancarono in passato codeste vane illusioni dei sensi dell’uomo. Una volta che la mente sia stata tratta in errore e si sia convinta di cose non vere, è inevitabile che anche i sensi si ingannino, e ingannati questi, la mente sragiona. Vi è grande contiguità tra sensi e mente. Talvolta la stessa mente da sola, ovvero sia, come dicono, le sole virtù interiori adempiono alle funzioni che son proprie degli organi di senso esterni. Ne sono un classico esempio i sonnambuli, che compiono le azioni di coloro che sono svegli. E, secondo quanto attesta Galeno, un uomo in preda al delirio vedeva in un angolo della casa dei suonatori di flauto, e un bastone, immerso nell’acqua, appare spezzato, e incrociate le dita a formare una grata e guardando in alto con un occhio due cose sembrano una, e due linee che corrono parallele paiono ai sensi congiungersi, pur non toccandosi mai. Anche lo stesso Lattanzio, che si diede più allo studio dell’elocuzione che non alla conoscenza degli svariati campi del sapere, negò che la terra fosse ovunque abitabile. Le apparenze indussero costui in un errore banale e da lattanti. Come negare il senso per la ragione vuol dir mancar di ragione, così anche non lasciarsi convincere dalla ragione a causa di qualche apparenza ingannevole è da stolti. Allora infatti si può esser certi, quando, come dice Aristotele, (nel suo De Coelo n.d.a) “o logos tois fainomenois marturei kai ta fainomena …”, cioè quando la ragione conferma quanto appare e quando le sensazioni ratificano il ragionamento. Quando entrambe non concordano vicendevolmente, è tutto falso, è tutto un errore. Ma torniamo ai nostri fantasmi. Ti capiterà di vedere talvolta città, borghi e palazzi, a volte anche animali e buoi screziati e immagini di altri oggetti o piuttosto apparizioni, là dove non vi è alcuna città, o bestiame e neppure cespugli. Qualche volta è stato piacevole per me assistere a questi divertenti giochi della natura. Sono visioni che non durano a lungo, ma come le folate di calore tra le quali compaiono, passano da un luogo ad un altro e cambiano forma, per cui forse son dette “mutate”, o forse perché, dopo queste apparizioni, il tempo solitamente muta e da sereno si fa piovoso. E’ un fenomeno che si manifesta al mattino, quando l’aria è immobile e comincia appena e lievemente a spirare, come è sua consuetudine, il vento di mezzogiorno, l’Austro. Infatti l’Austro per quanto è assai impetuoso quando sta per cessare, per tanto si fa sentire appena, quando inizia a levarsi e se fa caldo, fa innalzare delle sottili nubi, che a mo’ di uno specchio riflettono di città, bestie e altri oggetti. E come l’aria calda carica di umidità si muove, così anche si muovono quelle figure, non diversamente da quanto possiamo vedere negli specchi quando li scuotiamo e li agitiamo, nei quali gli stessi oggetti sembrano spostarsi. E allorquando gli oggetti si oppongono dritti alle folate di calore, dritti si vedono, come l’ombra che si contrappone a un corpo colpito dalla luce; quando invece le immagini degli oggetti si oppongono di traverso e torte, in queste folate di calore vediamo anche le stesse cose in modo distorto, allo stesso modo in cui osserviamo che, riflettendosi nell’acqua, le cime dei monti e dei tetti occupano la parte inferiore dell’immagine. Accade infatti che quelle cose che sono più vicine alla superficie dell’acqua, come le basi di una costruzione, siano più lontane da noi; viceversa le immagini delle estremità dei tetti, che sono più distanti dall’acqua, siano più vicine a noi, e per questo si vedano più in basso. Così ancora, se ci troviamo in un stanza chiusa e un po’ di luce penetra attraverso delle fessure, ogni cosa si vede capovolta: le teste degli uomini in basso e i piedi in alto. Le linee prodotte dalle ombre infatti non procedono dritte, ma si modificano e si incrociano nel mezzo. Accade lo stesso fenomeno negli specchi concavi, sicché la parte superiore dello specchio restituisce la parte inferiore e quella inferiore la superiore di ciò che in esso si specchia. Questi miraggi spesso ingannano lo sguardo di chi viaggia, che, mentre ritiene di esser vicino alla città, si trova invece lontanissimo da essa. In questa zona sono stati visti, nel cielo, immagini di uomini che cavalcavano e che procedevano a piedi. Così anche gli scrittori registrarono che furono scorti nel cielo eserciti armati di tutto punto e pronti al combattimento, e queste, come credo, erano le raffigurazioni di oggetti che si trovavano lontano e che da quel luogo in cui le immagini venivano osservate non erano affatto visibili […]».