Antonio de Ferrariis, un antropologo ante litteram (II Parte)
25 marzo 2013 di Redazione
Streghe, fantasmi e vampiri nel De situ Japigiae
di Riccardo Viganò
Nel “De Situ Iapigiae” il Galateo, trattando il tema delle “mutuate”, scrive che «Il popolino favoleggia di non so quali streghe o lamie [ovvero “Donne vampiro” secondo il poeta latino Orazio, ndr] o, come le chiamano a Napoli, janare [...]. Questa diceria si sparse per tutta la terra e trasse in errore le persone povere e sprovvedute» facendo notare, con quell’acume scientifico e scrupoloso già evidenziato nel mio precedente articolo (“Antonio De Ferrariis, un antropologo ante litteram del XVI secolo: il “De Situ Japigiae”, caratteri generali”), che il popolo credeva «senza che vi sia chi possa confermarlo con certezza, senza che si adduca alcun ragionamento plausibile, senza alcuna prova che lo documenti, ognuno presta fede a cose che non ha visto né sono vere. Ci atteniamo alle altrui dichiarazioni e alle testimonianze di gente» definita da lui stesso ignorantissima poiché crede «a puerili fantasticherie e a senili vaneggiamenti, dando più peso all’udito che alla vista. Non si trova nessun testimone oculare, tutti ammettono di averlo udito da altri».
Come suo solito il De Ferrariis, oltre a riportare il racconto popolare e a cercare la spiegazione scientifica del “fatto”, arricchisce la dissertazione rifacendosi a ciò che gli autori antichi, da lui ben conosciuti, riferiscono in merito. Proprio nel caso delle “streghe”, il racconto narrato dall’autore salentino evidenzia molte corrispondenze con un passo delle “Metamorfosi” di Apuleio. Nello specifico, pare esser recuperato il momento in cui Apuleio scrive che il giovane Lucio, ospite del ricco Milone e di sua moglie Pànfile, esperta di magia, riesce a conquistarsi i favori della servetta Fotide convincendola a farlo assistere di nascosto a una delle trasformazioni cui si sottopone la padrona e, precisamente, quella nella quale Pànfile, spalmandosi un unguento, si muta in gufo. Scrive a tal proposito il Galateo che «alcuni sono convinti dell’esistenza di certe donne malefiche o piuttosto diaboliche che, spalmatesi di unguenti, di notte assumono l’aspetto di animali diversi» e ciò attraverso la celebrazione di alcuni riti che le stesse streghe eseguivano durante i loro ritrovi ovvero, con le parole dell’autore, esse «eseguono in circolo danze per luoghi paludosi e si incontrano con i demoni; entrano ed escono da porte chiuse e fessure; uccidono i bambini e compiono non so quali altre stranezze». Passo, questo, che tuttora resiste ancora, in maniera edulcorata ed escluso l’infanticidio, nelle fiabe e nei racconti popolari moderni come, ad esempio, “Il Noce di Minico Cintu”.
L’umanista considera, inoltre, il mondo dell’aldilà e il vampirismo come una moda che ha ”invaso l’intero oriente”, dando spazio anche alla descrizione del fenomeno dei fuochi fatui ossia quelle fiammelle generate dalla combustione del metano e del fosfano liberatisi dai resti organici in seguito al processo di decomposizione. Fenomeno, questo, particolarmente visibile nei periodi estivi – a causa della chimica di combustione favorita dalla calura – e che, secondo le leggende popolari medievali, erano la dimostrazione dell’esistenza dell’anima. Ai fuochi fatui, il De Ferrariis, accosta la descrizione di quella superstizione che voleva l’esistenza dei Vampiri dicendo che il popolo crede che essi siano «le anime di coloro che vissero scelleratamente, [le quali, ndr] sono solite volar via dai sepolcri in forma di globi di fuoco, apparire ai conoscenti e agli amici, cibarsi di animali, succhiare il sangue dei bambini e ucciderli, quindi ritornare nelle loro tombe». Continua l’autore aggiungendo che «gente, superstiziosa, dissotterra le sepolture e, lacerato il cadavere, ne estrae il cuore, lo brucia e getta lontano la cenere ai quattro venti, cioè alle quattro parti del mondo: crede che in tal modo si ponga fine a quel flagello» e concludendo, col solito acume intellettuale, che ciò, pur trattandosi di false credenze, «tuttavia ci dimostra quanto siano implacabilmente odiati tutti coloro che condussero un’esistenza malvagia, sia da vivi che da morti». È evidente che, dopotutto, quel “sia da vivi che da morti” porta a considerare come lo stesso De Ferrariis credeva senza mezzi termini all’esistenza di una vita ultraterrena e che la malvagità potesse manifestarsi anche dall’aldilà sfruttando le nostre percezioni sensoriali.
(segue)