Antonio Devicienti: nella petraia i sassi ardono

Da Narcyso

Antonio Devicienti, TORRIDO, in AA.VV. OPERE SCELTE, FaraEditore 2014

Il poemetto di Antonio Devicienti, selezionato al concorso “Pubblica con noi” 2014, è ispirato alle vicende umane e artistiche di Edoardo De Candia, pittore ed emarginato (Lecce, 1933 – ivi, 1992).
Intreccia elementi di biografia del pittore a un canto “forsennato”, altisonante, dove i temi della vita e dell’arte si rincorrono e si feriscono.
Il motivo dell’alienazione sociale si porta dietro la memoria di altri artisti ingabbiati in una vita difficile e febbrile, spesso in un’aura di pazzia e che qui appaiono tra le filigrane di una voce nervosa, indignata – per esempio Dino Campana, Rotko… -
Il “torrido” del titolo mi sembra sottolinei assai bene il sostrato desertico che fa da sfondo alle vicende dell’artista, ma anche un vivere febbrilmente, un “vedere” per disperazione ai margini della città.
Più in generale il poemetto insiste sul valore della libertà nell’arte, il compito di sfuggire alle pastoie del parlare e pensare comuni, quindi a un imborghesimento che tende a considerare l’arte come espressione dei valori di una classe sociale, piuttosto che degli aneliti alla libertà e alla bellezza di un popolo intero.
Così “il vichingo” mezzo nudo, com’era chiamato Edoardo De Candia, non può essere preso in considerazione per i valori o disvalori della sua opera, ma per la forma del suo vivere, per il vestito che decide di indossare.
Questo tema del divario tra arte e vita, è sicuramente uno dei più frequentati della poesia degli ultimi due secoli trascorsi, portatore, forse, dei risultati poetici di maggior sconvolgimento, a partire dal padre tutelare che questo tema lo ha espressamente cantato – Baudelaire nel suo Albatros, testo che Antonio include per intero nel poemetto -
Questa inclusione segnala, tra l’altro, un modo di procedere compositivo assai chiaro: la citazione poetica funzionale a un intento programmatico che, partendo dalle vicende del pittore, le attraversa fino a giungere a una attualizzazione di altre vicende, quelle di una umanità derelitta e ferita che non ha canto.
L’afflato di questi versi, dunque, li porta a contorcersi e a spezzarsi, spesso a urlare, a sentire l’indignazione come il tono necessario di ogni poeta in esilio.
La parola poetica, insomma, ha il compito dell’abitare dentro al mondo, di farsi portatrice di lacerti di umanità, di immagini concretissime, di un’epica moderna, tutta da reinventare, non in contrasto con le forze liriche ma in una tenzone positiva, creatrice.

Sebastiano Aglieco

***

e sommerso il Salento
tutto si nobilita se manda
totò toma da Maglie
messaggi in versi al pittatore di Lecce

toma si sceglie l’eremitaggio
si costruisce da solo una capanna
sorseggia acqua di povertà da una
smaltata tazza
disegna gli alberi della radura
i cani dell’amicizia
si cuce grezzi panni da contadino.

Discende nelle viscere della meditazione
la pioggia rossastra del diniego -
rifiutata la città è rifiutato il denaro
rifiutati gli onori, accolta la solitudine

e il piatto di maccheroni del silente.

Portare il cibo alla bocca con tre dita
della mano che
nel congiungersi avvicinano
fame e povertà
strazio e sopravvivenza.

I pilastri della radura germogliano
giorni implacabili di ricordi
assieme a passaggi altissimi di nubi

dalla campagna assetata di luna
perché è mezzogiorno altissimo
manda da Maglie messaggi
e si ricorda di alceo
del cardo in fiore e delle donne
allupate
è vita il canto
se cantando ci pensiamo comunità
se cantando siamo anche memoria
se cantando traversiamo la notte sul treno
sullo stesso treno che portò i nostri padri
verso il Nord
e noi torniamo nel canto
e nel dialogo
e nei libri che sono
lettere d’amore
o una mattinata a Castro
limpida come un verso di sandro penna
quando il vento risale dal porto
escavato nella scogliera
verso i balconi della città alta
smuovono fondali di visioni i ventilatori
a soffitto
le lente parole del pensiero se
spesso per divertirsi gli equipaggi
catturano degli albatri (quei grandi
uccelli marini) i quali indolenti
compagni di viaggio tengono dietro
alla nave che scivola su amari
abissi
ed appena messi in sopracoperta
maldestri quei re dell’azzurro lasciano
vergognosi e miseri strascinare
le grandi ali bianche ora inerti remi
viaggiatore alato ora così goffo
prima così bello ora brutto e laido!
L’uno stuzzica il becco con la pipa
l’altro imita zoppicando l’infermo
che pur sapeva volare:
somiglia il pittore al principe delle
nuvole che asseconda la tempesta
e beffa l’arciere ma
esiliato sulla terra fra schermi
gl’impediscono il passo le sue ali
di gigante
perché restano albatri il pittore e il poeta
anche adesso che il Capitale sbava sui pozzi di petrolio
un siffatto mondo deve attraversare l’albatro decàndia
alle sue tempere fumi velenosi mescolare
nell’aria addensati sopra le nostre
spensieratezze
deve bel bicchiere di vino guardare annegare
gli anni fatati.

***

Terra oscura, febbrile, che con il dire tento.
Attingo parole, le mani a coppa,
le accosto alle labbra orlate di sale.
Quasi secco il pozzo dov’è di terra
il sapore dell’acqua.

Mi avvicino alla cappella e il grifone
di tufo mi saluta in griko – ah,
possedere questa lingua antichissima
e mescidata!
Sono monaco che tesse mosaici
pavimentali e ripete tra sé e sé ripete
ninnenanne che
Maria Farantuori
ricanterà tra nove secoli
forse ai piedi delle mura di Salonicco.
Posso vedere quelle mura che non ho mai visto
nel dorato tufo della cappella
e l’olivo che dentro vi cresce
mi prepara un raccolto
di nerissimi frutti che tingono
le labbra e i denti, a mangiarli.
Come quando portavano le icone
sulle mura a difesa di Bisanzio,
così dispongo le nerolucide
lampade delle olive ai piedi
degli affreschi: ardono in esse l’olio,
il pigmento per colori, il condimento al pane.

Adesso sono un contadino appoggiato all’ombra
della cappella e sto guardando
Corigliano d’Otranto:
ho perduto la mano destra
sul fronte albanese -
tre anni della mia vita
in prigionia in Germania
poi il ritorno

e le randellate dei carabinieri
su di noi che occupavamo le terre.
Un mio nipote morirà
arso nell’autoblindo sotto le mura
di Kandahar.

***

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