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Antonio Devicienti su: Maremarmo, di Fernanda Ferraresso

Da Narcyso

Fernanda Ferraresso, MAREMARMO, LietoColle 2014

 

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Maremarmo di Fernanda Ferraresso (LietoColle, Faloppio, 2014) è un libro dolorante che attraversa l’indicibile pena dei migranti usando il linguaggio per un solo, severo fine: dire il lutto della separazione, l’angoscia degli attraversamenti (il deserto, il mare, la nuova terra cui fortunosamente si è approdati), l’offesa delle violenze subìte, spesso la morte irredimibile. Maremarmo è un libro che non vuole consolare e che nel suo stesso impianto di contenuto e di stile afferma un modo di scrivere poesia fermamente in opposizione a qualunque tendenza estetizzante e solipsistica. La prima lettura non è facile, ma impervia e non concede nulla al lettore, non ricorre a quei trucchi più o meno diffusi per catturarlo, come si suol dire o compiacerlo: semplicemente a Fernanda Ferraresso questo non interessa. La scelta stilistica e linguistica, ci si accorge subito, è coerente e necessaria: la chiarezza del dettato poetico ed il verso lungo sono funzionali al dover dire l’indicibile dell’offesa, del dolore, della disperazione. Fatta piazza pulita di poetismi e vezzi retorici, il linguaggio di questo libro è concreto e impietoso, mi sembra che la versificazione serva a ritmare e a scandire meglio l’assoluta necessità che Fernanda Ferraresso avvertiva di dar voce ai migranti. La stessa citazione sùbito in apertura da Cristallo di respiro di Paul Celan (In fondo / al crepaccio dei tempi, / (…) / attende, un cristallo di respiro, / la tua immutabile / testimonianza. / (…) / Dove arde una parola che testimoni / per noi due?) è una chiara dichiarazione d’intenti, la chiave per entrare nel libro. E così il primo testo che apre la raccolta a pag. 11, anche nel suo allineamento tipografico a destra e non, come usualmente accade, a sinistra, dice un punto d’arrivo che coincide esattamente con il punto di partenza:

La carovana viaggia da tempo
brucia materia umana
nessuno ormai ricorda il giorno dell’inizio.

M’immagino allora, da lettore, che dovrò pensare alle migrazioni degli ultimi decenni, ma anche a quelle dei secoli e dei millenni passati, in un andirivieni continuo tra passato e presente che dà profondità alla percezione e che mi porta a ricordare che anch’io sono figlio d’una migrazione, forse antica, ma non meno dolorosa delle attuali. Infatti in questi testi di Fernanda Ferraresso non c’è spazio né per le metafore né per le simbologie: tutto è detto in modo esplicito e diretto, seguendo un’istanza etica urgente ed irrinunciabile.

Ferro titanio
biancori che non sono l’alba
residui di forme odori liberati dai campi di raccolta
dove stiamo stipati ammassati
in un tempo atomico che taccheggia ogni cosa
dilania i corpi (pag. 12)

e

I lager non sono mai scomparsi
(…)
logica di un capitale guadagno che ha nome privilegio
e la sua lingua non ha fiori e ieri come oggi semina guerre
campi per i profughi radica muri profondi e spessi
in Messico a Tijuana come in Cisgiordania (pag. 14).

Le parti del mondo più impoverite, lo sfruttamento, i campi di raccolta, il concetto di clandestinità, la fuga dalle guerre sono detti con versi lunghi il cui ritmo è dettato dall’immedesimazione totale da parte dell’autrice con il destino dei migranti e dall’urgenza di prendere la lingua italiana ed usarla per dire ciò che sta accadendo, in un moto di protesta e di denuncia che vogliono far uscire la poesia dal proprio recinto, travalicare l’hortus conclusus di questo genere letterario. So, anche perché ne abbiamo parlato molto spesso, che Fernanda non concepirebbe in altro modo il proprio impegno poetico: Maremarmo ignora totalmente (oppure la supera) la storia personale di chi scrive per identificarsi in toto con la storia dei migranti i quali rappresentano anche chiunque soffra per un’ingiustizia o a causa dello sfruttamento economico e sociale perpetrato ai danni dell’essere umano.
Leggiamo a pag. 18:

Qui di ora in ora cedendo la mia vita ad altre
sul labbro del tempo e nel linguaggio
recito ciò che più buio
sta ritratto dietro il mio volto

e si tratta di pesi, di oscuri grovigli, dell’acqua amara della solitudine (pag. 21) che la coscienza e il suo mezzo d’espressione, la lingua, tentano di recuperare e portare alla luce. Abbiamo tra le mani un libro assai complesso che non si limita ad affrontare un tema per così dire d’attualità (si pensi, tra l’altro, alla seria e pregevole proposta di Fabiano Alborghetti L’altra riva), ma che scava anche le implicazioni dell’inconscio collettivo, le connessioni storiche, economiche e sociali della migranza; spia ne sono anche i tempi verbali, che dal passato remoto e dall’imperfetto dei testi in cui si attua una sorta di rimemorazione del passato, anche felice talvolta, trapassano al presente e al passato prossimo nei testi in cui si rappresenta l’oggi. E c’è una coralità nel canto di Fernanda Ferraresso (il che è ben comprensibile) che sembra derivare anche da suggestioni bibliche e coraniche, senza dimenticare probabilissime connessioni con certi testi di Paul Celan e di Nelly Sachs. Ma non basta: colpisce non poco la prevalenza di un canto che definirei “femminile”, in quanto portatrici della parola che tenta di dire il dolore e la speranza sono proprio le donne che poi, dopo l’approdo, diventano una voce femminile sola, senza nome, ma concretissima e l’anima ed il corpo che ospitano tale voce subiscono la violenza dello stupro ripetuto e di un aborto autoprocurato. È la voce dell’Ecuba euripidea che continua a risuonare, di colei che, prona per tutto il tempo sulla scena, dice la presa e la distruzione di Troia, quindi l’inizio della deportazione; ma anche la voce del compianto della Madre sul Cristo morto e il grido lacerante delle donne di cultura arabo-islamica: nel Mediterraneo è da sempre la donna a ricomporre i resti dei defunti e a cantarne le lodi; in questo libro il canto esprime la consapevolezza di quello che accade e racconta l’accadere:

di persone volano
dovunque in aria volano
senza lasciare un segno
corpi e macerie in una sola amalgama di orrore
poi a terra piombano le strade la voce e la gente
si stringe intorno a quella chiara eclissi china
intorno ai moncherini di una vita che non riconoscono (pag. 22).

Spero che quanto da me appena affermato non venga inteso come un’etichetta limitante, ma come una precisa ed ampia direzione di lettura; e dirò di più: c’è uno splendido libro in circolazione, un libro vicinissimo a Maremarmo ed è Scuola di calore di Massimo Rizzante (Effigie, Milano, 2013): ecco, qui c’è una voce “maschile” che afferma il valore etico, culturale, storico, psicologico del femminile e che con straordinaria forza d’immedesimazione dice a sua volta il destino di donne migranti e violate, un’opera che sembra dare ragione ad Anna Maria Farabbi quando quest’ultima, da anni, va sottolineando la fecondità del pensiero femminile, non per innalzare ulteriori barriere o rafforzare le contrapposizioni, ma per proporre una cultura altra, realisticamente alternativa e positiva rispetto alla dominante cultura della morte e della violenza. Non è un caso che Maremarmo rechi in chiusura la commossa lettera con cui proprio Anna Maria Farabbi, lettrice in anteprima del manoscritto di Fernanda, riconosce a quest’ultima di essere riuscita a cantare ciò che è difficile, se non impossibile dire in forma di canto poetico, tutto ciò che fa perno sull’interrogativo se vogliamo ancora credere nella nostra umanità, se siamo ancora in grado di credere alla congiunzione degli uni con gli altri e se non con amore, con civiltà (pag. 47).
E Maremarmo è l’altro nome del Mediterraneo, è il nome dell’acqua trasformatasi in pietra tombale e della minaccia mortale da affrontare e superare al fine di giungere sulla riva italiana, ma anche il nome della parete durissima che separa le due sponde, della materia marmorea che non si lascia attraversare, sorda, fredda e glaciale. E questo viaggio “verso la frontiera nord”, la sosta nel “campo profughi”, l’uscita dal “cancello nord” e l’attesa sulla “banchina 2”, ancora attese e ricordi nella “tenda da campo n. 6”, la traversata “in piedi dentro il mare” fino all’altra riva e spiaggia di Maremarmo (ho citato tra virgolette i titoli di alcuni testi che costituiscono le tappe del viaggio dei migranti e in questo senso il libro possiede anche una sua coerente trama) significano sì approdo alla riva italiana, ma anche abuso e violenza sulle persone, sui loro corpi e sulle loro menti, violazione dei loro esseri, ciascuno dei quali reca dentro di sé un mondo e i propri ricordi:

e viene da lontano un uomo uno vestito di bianco
le mette le mani sul ventre con forza in basso preme
ed esce rossa di sangue una piccola serpe
un torrente di pioggia precipita
sulle pietre isole un sole
qualcosa che di luce si muove (pag. 32);

da lontano arriva alla sua casa e brilla il suo fallo dentro il tempo un assalto nel luogo che ovunque è lo stesso luogo della voglia e del sesso dello stupro come un sasso conficcato dentro
lei ferma lei sta ferma come una pietra dentro la casa
che era il corpo di sua madre
lei è morta dentro l’innocenza persa
dentro il guasto di quel seme avanzato dal candido
bianco mare di marmo dalle cosce fino al limo della terra
un flusso senza coscienza
lei ha una lucertola che le naviga
il corpo che il corpo suo lacera
una bellezza senza occhio
uno sguardo perso sul suo volto di ragazza (pag. 33).

Non esiste pateticità né sentimentalismo in questo modo di scrivere, e pure questo è un titolo di merito del libro, spesso c’è invece la durezza del vocabolo esatto, quasi un occhio clinico che non cede ad infingimenti o a occultamenti. Infatti:

ma non c’è pace dentro il suo crimine
lei stuprata s’è tagliata la vita accovacciata
faccia a terra ha fatto cadere in un buco il suo frutto
lei è la balena che naviga nel marmo
quand’ero piccola – dice
quand’ero piccola – e lo ripete
una volta cento volte si accarezza il braccio
come accarezzare un giglio come
sfiorare l’erba di un campo
poi alza la testa come se vedesse
qualcuno qualcosa
oltre la finestra
in una notte vuota
dove nessuna porta si è salvata (pag. 34).

Quanto detto in Maremarmo è, come si può notare, inscindibile dal tema del corpo, perché è il corpo ad essere venduto e comprato, violato e imprigionato: e dentro il corpo c’è la mente e alla mente appartiene la memoria. La totalità della persona è ciò che viene, dunque, venduto e comprato, violato e imprigionato. Aggiungo e sottolineo che, in rapporto a tale tema, Maremarmo non rientra nel novero degli ormai troppi libri di poesia che ripetono questo Leitmotiv della corporalità, proprio perché parlare del corpo è, nel libro di Fernanda, necessario ed irrinunciabile, consustanziale al nucleo attorno al quale ruota questa scrittura e con esso coerente.
I testi dell’ultima parte del libro sono poi altri racconti di viaggi e di dolore, ognuno dice di un’esperienza e c’è quella di chi fu strappato a forza dalla sua terra, quella di chi invece decise di andarsene, quella di chi scelse il suicidio non sopportando più gli abusi subìti, quella di chi si ritrovò a recare in grembo il frutto dello stupro… In questo senso Maremarmo somiglia ad un laico corale dei nostri tempi, ad una Via crucis tutta terrestre durante la quale la pietas è detta da una voce poetica che non sa e non vuol tacere e che consegna ad un libro (ma non solo, conoscendo l’autrice) il proprio impegno umano e civile. A differenza di quanto accade in Migratorie non sono le vie degli uccelli (Il Ponte del Sale, Rovigo, 2009), splendida opera prima dove spesso il linguaggio veniva forzato per renderne visibile la tramatura inapparente ed insospettata sia a livello concettuale che tipografico, nel nuovo libro non c’è posto per questo tipo di scavo che apparirebbe qui quantomeno amorale, nel senso che, come ho già sottolineato, Maremarmo è tutto teso a dire e a fermare dentro la parola (quella di tutti, quella quotidiana) ciò che spesso è superficiale e veloce cronaca giornalistica (quando va bene), quanto accade in enorme perdita di vite e che sembra non toccare né le nostre coscienze, né la nostra vita personale. Se qui c’è una scelta di stile (la poesia, volenti o nolenti, è anche un fatto di stile), essa si enuclea, mi sembra, oltre che nel verso lungo, anche nella rarefazione della punteggiatura che costringe a leggere tutto d’un fiato, con l’affanno del dolore, con una sensazione costante di apnea e di annegamento, perché (e questa è la mia sensazione, mi si perdoni l’eventuale, non voluta enfasi) questo libro vuol far male alla mente che legge e al corpo che con l’emissione vocale dà suono alla lettura. Sono rari i libri che vogliono far male e il lettore che, traverso la poesia, vuol accrescere la propria consapevolezza deve essere grato a Maremarmo per questo; in termini civili significa che non si allontanano da sé le proprie responsabilità individuali e collettive, in termini culturali si tiene viva una linea illuministica che ha ripugnanza delle fughe nell’estetismo e nell’irrazionale, ma che conserva

tutto il fuoco che mi vive dentro
la stessa fiamma che ho ancora in corpo
perché ricordo
io mi ricordo (pag. 36)

– perché ricordo, io mi ricordo.

Dentro me vago un mare continuo un esilio
di terra in altre terre conclusa
e non conosco approdo in cui guardarmi il volto
da radici d’ombra tinta la mia vita è deserta (pag. 42): la solitudine del migrante (e dell’e-migrante e dell’esule) trova qui la lingua italiana come mezzo del dire, quella stessa lingua che spesso appartiene a sorveglianti dei campi di transito, a gente comune e a personalità politiche che la usano per offendere ed umiliare queste persone; ragion per cui la poesia ha di nuovo la possibilità, ma anche il dovere di riscattare la lingua dall’uso che ne fanno gli aguzzini e i violenti e di scendere fino alla

vera di quel pozzo
senza fondo di voci in cui
ogni giorno si accende e poi s’impicca l’amore (pag. 44).

La radicalità della scelta di Fernanda Ferraresso porta così la poesia a cercare se stessa sulla bocca degli esclusi, a dover chiedere proprio agli offesi e agli uccisi di essere ammessa ad esistere, dal momento che sembra fin troppo scontato che si continuino a scrivere versi mentre maremarmo (che, a ben pensarci, non è solo il nome del mare che inghiotte i migranti, ma anche di qualunque momento di violenza e di violazione della vita umana: guerra, morte sul lavoro, violenza sulle donne e sui bambini) continua ad ingoiare nel proprio ventre cadaveri, là dove questo libro mette in radicale discussione tale certezza: la poesia deve sempre chiedere agli esclusi e agli uccisi il permesso di esistere se non vuole essere osceno rito dei privilegiati e se, secondo l’indicazione di Celan, si vuole giungere ad una parola capace di testimoniare per il testimone.

 Antonio Devicienti


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