Il titolo esprime subito e molto bene un modo di fare poesia che vuol prendersi cura del mondo e delle persone per farsene carico: ed è poesia dalla pronuncia limpida, anche quando attraversa il dolore.
Trasparenza: trans- (attraverso) e parere (apparire, essere visibile) dicono di uno stato o di un'aspirazione al vedere attraverso le cose, ma anche di una perspicuità cercata e l'aria è l'elemento vitale che respiriamo e che permette la fonazione.
Mi sta a cuore la trasparenza dell'aria.
È dolce raccoglierla come la porzione
estrema di un destino comune
quando il mare gonfia lento,
si pavoneggiano le vele
e il giorno si fa più leggero (pag. 13).
C'è una grazia di matrice greca, un'attenzione fisica e mentale al mondo in questi testi e un'ispirazione esplicitata:
Cammino in un ronzio di versi
verso la casa di Simone, Cristina,
nel cerchio della sorte
Uccelli d'anima che incidono
piegato al vento sacro della bellezza
su dal macigno, su dal sonno,
brivido nella radice e nelle foglie,
come nella tragedia antica la presenza
del coro che morde, avverte,
oltre la vacuità delle apparenze (pag. 14).
È molto commovente l'idea della casa delle poetesse più amate verso la quale si cammina in un ronzio di versi, ricorda il "condominio dei poeti" inventato da Alberto Masala in Alfabeto di strade (Il Maestrale, Nuoro, 2009) e sottolinea l'intima frequentazione di tali autrici, mentre tutto questo si trasforma in una vera e propria dichiarazione di poetica: Weil, Campo, Dickinson e Pozzi sono uccelli d'anima capaci d'incidere il pensiero / piegato al vento sacro della bellezza e sono voci di radicale tragicità, un coro di classica sapienza e compostezza in un filo che non può spezzarsi e che lega il nostro passato al nostro presente grazie alla parola poetica che sa andare, guardare e dire oltre la vacuità delle apparenze.
Infatti il dolore e la ribellione contro l'insania si esprimono già alla pagina successiva:
ma mille volte più duro è vedere
l'insania distruggere
ciò che la sorte ci diede in dono:
la parola ormai incapace
la vera vita del pensiero
con i rovi e le spine che le crescono
mentre l'agape fiorisce
smagliante di colori al sole
con la luna che si nasconde
senza nome, né fede, né costume,
nuda di tutto e di se stessa.
Qui sottolineerei il tono estremamente accorato, ma al tempo stesso controllato che caratterizza l'empito di ribellione contro tutto quello che impedisce alla parola di "dire", ma voglio segnalare anche (chiedo venia per il termine da me scelto) una "curiosità": nella copia in mio possesso leggo agape (parola greca che significa amore), ma dal contesto sarei propenso ad interpretare agave e mi sembra interessante, se si tratta di un errore di stampa, la coincidenza tra l'amore e la pianta che muore proprio quando dona la sua indimenticabile fioritura. A Rosa Salvia interessa infatti la riflessione esistenziale, la constatazione di quanto forte possa essere la vita, pur minacciata e fragile ed ecco allora versi limpidi e icastici:
con la figura della prora
una rosa che sa del vento e del naufragio (pag. 20).
Ritornerà l'immagine della barca, vedremo e qui c'è anche un gioco impercettibile con il proprio nome di battesimo, una persona-fiore che ha
pietra, dolore, pace (pag. 21) e che raccoglie in otto sostantivi le parole-chiave dell'intero libro.
Giungiamo così nella ferita aperta, ché questo libro così greco e limpido è, in realtà, attraversamento del dolore:
Il mio corpo senz'utero
come il mondo umilia Dio.
sacro come riso di bambino
Chiudo gli occhi canto la ninna nanna
col mio cuore di polvere.
Vivo dove guidano le parole
con l'aliena figura sconosciuta,
Annodo e snodo le mie ombre,
per spiare le mie cicatrici
che mi porto dentro (pag. 23).
È la faglia attiva tra scrittura e vita, il punto difficile dove ci si domanda se anche la scrittura sia capace di generare e, in caso affermativo, che cosa; è il punto di frizione dove Rosa Salvia incontra, oltre che quella delle sue già citate maestre (così "imperdonabili" e ammirevoli nel loro confrontarsi con la "tigre assenza"), la poesia di Anna Maria Ferramosca, di Annamaria Farabbi, di Maria Grazia Calandrone, di Lucetta Frisa, proprio lì dove viene affrontata la questione del corpo femminile come sede della generazione e della poesia che quell'atto generante (e generoso) canta o, talvolta, sostituisce, mai, direi, come surrogato, ma come coraggiosa e dolorosamente umana riflessione. Qui quel corpo senz'utero, vivo eppure vuoto, è voce dolorante di una femminilità che avrebbe desiderato generare, ma che, pur sentendosi umiliata dal non poterlo fare, ne dice senza remore il senso di mancanza e le possibilità alternative: madre di me stessa, la bambina / che mi porto dentro e le parole, le ombre, le cicatrici sono tutte situazioni che trovano proprio nella parola verbalizzazione e ragion d'essere. Non c'è poesia senza il corpo, ormai lo sappiamo e Rosa Salvia viene a dirci di un corpo mutilato che, pure, continua a generare poesia forse proprio perché la poesia non può non nascere dall'essere in vita di chi la compone e perché la poesia deve dire anche di un'assenza e di un vuoto che alla vita appartengono - e potrà essere, come in questo caso, l'utero mancante, più avanti nel libro la morte.
Ed infatti ci viene incontro un testo dalla calibratura perfetta:
Affondiamo la bellezza nel sangue
dello stupore in spazi incantati
fra sospensioni dell'accadere
vaghezza di affetti e di umori.
Doniamo, nel respiro delle foglie,
la musica rugiada della selva
Ascoltiamo ciò che le cose hanno da dire
come i bambini che giocano con le frange
imparando a meditare gli alberi (pag. 25): eccola la trasparenza dell'aria, essa sta dentro versi misurati, dentro sensazioni che tutti conosciamo e condividiamo, ma che la voce della poesia sa restituire come nuove e ancora più belle proprio perché appena riscoperte e, dalle pagine seguenti, raccolgo e metto insieme tessere di mosaico per un mio personale ritornare su alcuni passaggi del libro di Rosa Salvia:
Miagolii di gatti in amore
mi turbano il pensiero (pag. 28);
Sentire il soffio della luce sulle ossa
quando scriviamo la parola terra (pag. 30);
Guardo le gocce d'acqua
che scorrono giù per il vetro
non cadono verticalmente,
che deviano a destra, a sinistra,
giocano, danzano, ruzzolano,
arrestandosi, ripartendo,
come se cercassero qualcosa,
respirando il loro sommesso alito
profumato di miele (pag. 31);
Aspetto che la luna rossa
come un gong tonante (pag. 33);
ma nelle tessere del mosaico che non ho riportato c'è anche la sofferenza provocata da un mondo anti-umano, l'intrecciarsi di esperienze e desideri personali con le vite altrui, per la qual cosa il titolo del libro riceve ulteriore inveramento nel suo affermare la cura che la scrittura vuole avere nei confronti del mondo.
E una presenza viva, vivificante, fraterna, vigile è quella del mare, con cui Rosa Salvia sembra avere un rapporto privilegiato ( il mare è una distanza / più vicina del pensiero a pag. 33 e gli odori del mare / della schiuma che dilata / dove tutto in fretta si disperde / in questo vivere che è amore / ma anche morte, / dolcezza d'essere e non essere, / miseria e grandezza / (...) / Restano i ghirigori dei gabbiani / le reti ghiotte sulle rive a pag. 40), ma che può essere anche teatro di un orribile delitto:
senza gorgheggio con un'ala cercano
palpano - il cielo manca -
un corpo violato di bimba
ossa fra gli scogli come petali
quando il giardino s'aggela
e sanguinano odori funesti dalle gole
Furioso s'alza in volo un frullo d'ali -
Il mare si ritira Non han voce le pietre (pag. 41). Sa essere anche questo un libro che, evocando la nottola di Minerva ( I miei occhi guardano / la tenda del cielo / che sembra dividermi dal mondo / Polifonia dell'eterno pieno / che io da bambina ascoltavo / sognando non so cosa, qualcosa che non accadeva / qualcosa che non accade / sulla pietra / della pazienza: / la nottola di Minerva / che schiuda le ali / al volo / nella cala ove tace la luce, pag. 35) e quindi la razionalità, s'immerge nella presenza della violenza assassina e del dolore, rievoca la vicenda di Elisa Claps in versi pervasi da pietas umana e civile e vuol terminare con una poesia dedicata ai bambini rom morti negli incendi delle loro casupole a Roma e a Milano nel 2010 e nel 2011.
Ma mi sono già spinto fino alla fine del libro ed ora devo riannodare il filo del discorso e lo faccio da una delle pagine che contiene un canto d'amore:
Quante volte annuso l'odore che viene
vedo i tuoi occhi venire con l'amore,
sento la tua voce che mi culla
come una nenia fasciata nell'ombra,
Quante volte prendo la tua voce
e la tengo ferma davanti allo specchio,
quello della cornice di vetro ornato di
ghirlande dorate come una messe di grano,
sopra il tappeto della sala da letto in cui
Quante volte v'imprimo il rumore d'un bacio
la cui eco dura più a lungo di mille granate.
Quante volte c'imbuchiamo nei cuscini,
cadendo dall'orlo della luce (pag. 45) e nella pagina successiva, nell' intermezzo di luce:
le loro lanterne di lucciole alle rive
si sfaldano i nostri corpi
vagano qua e là, nevicando farfalle
e diamanti fra rocce e dirupi,
nelle molte sfaccettature che questo libro possiede, nella sua complessità e molteplicità di temi armonizzati dalla capacità che Rosa Salvia ha di impiegare una lingua italiana bellissima ed elegante, l'amore e la sensualità sono a loro volta espressioni di una vicenda privata e canto in lode della vita, anche quando viene evocata l'ultima volta / del nostro amore, ché l'amarsi ardente e desiderato sembra venire interrotto dalla separazione (la morte o la malattia del compagno, pare di intuire), ma la poetessa trova proprio nella parola poetica la possibilità di continuare a dire l'amore:
ingovernabile nella sua
cola come un filo di sangue
e lambisce i miei piedi nudi
che calcano il tuo sonno in
quell'altra vita ora sommersa (pag. 52), cosicché è anche nel ritmo franto dagli enjambement che la poesia, sorella del mare e il mare, fratello della poesia, accolgono la solitudine e la nostalgia della poetessa, subito inserite in un ambito relazionale che rompe e supera il solipsismo in agguato:
Ci struggeremo, vivi con i vivi (pag. 53), dal momento che mi sta a cuore tutto ciò che è umano, tutto quello che ci fa appartenere ad una comunità, sembra suggerire Rosa Salvia.
Si aggiungono poi i luoghi, come Roma, la città in cui l'autrice vive:
Chiedo che mi si lasci una penna,
Il maestro e Margherita, anche lei,
il mio sogno bambino della mezzanotte (pag. 60)
e la Lucania, l'amatissima terra d'origine che trova nella lirica seguente una celebrazione indiretta e indimenticabile nella coincidenza tra sentire femminile, forza della poesia e appartenenza geografica:
Alla poetessa lucana Isabella Morra
Là dall'onda arrabbiata i pescatori tornano a riva
con le loro vele gonfie di vento
Tirano in secco una barca che si chiama
la corda bagnata scorre fra le loro dita e cade
sulla sabbia lambita dalla schiuma
formando misteriosi disegni che fissano lontano
come lo sguardo di Isabella simile
all'aria senza respiro accesa dalle stelle
che il mare mescola alla matassa della sua penombra (pag. 62). Non si può non ammirare l'invenzione di una barca che si chiama Isabella (Morra), la bellezza musicale che ritma il sapiente lavoro dei pescatori. E ricordo che sia Assunta Finiguerra che Anna Maria Curci hanno dedicato versi davvero convincenti ad Isabella di Morra, evidente paradigma di bellezza ed emancipazione, di dolore e di subìta ingiustizia, è vero, ma anche di poesia e di coraggio.
Le pagine successive del libro sono colme dell'affetto per figure intime con la poetessa: i genitori, un cane molto amato, un nipote, le amiche e quelle stesse pagine, con felice scelta, sembrano continuarsi nelle ultime che si aprono al mondo, che guardano a Kabul martoriata dalla guerra ( Grande terrazzo per guardare il mare. / Grande tavolo di pietra per scrivere le lettere che già / da mesi con affanno ti scrivo / nel guscio della separazione per colmarla, pag. 71 e che è dedicata a ogni donna / che ama un soldato in guerra), all'Africa (Intanto l'Africa viaggia, viaggia sempre, pag. 72), congiungendosi agli affetti privati, rievocando (l'ho già detto) con un atto di profonda pietas Elisa Claps ( quel che resta d'un corpo straziato / tanto tempo fa, / che ancora tristemente parla, / che ancora tristemente cerca / una chiave, una luce, / lungo il fetido, fondo, umido abisso, pag. 73) e concludendosi in un CANTO D'AMORE:
Si svegliano i silenzi tappeti di lamenti
è un dolore di voci che si spengono.
I bimbi rom affratellati nelle fiamme,
La mamma è fuori dal loro mondo sotterraneo.
Cenere nel campo nomadi macerie di casupola
Nelle nuvole di fumo volano foglie gialle,
come stormi di passeri arrabbiati.
Con quanti denti, o Signore, il tuo amore ci morde!
Passeranno i bambini lontano dalle croci del tuo labirinto
là dove giunge il tuo piede? (pag. 74).
Ogni lettore curioso e davvero interessato alla poesia dovrebbe leggere questo libro per riconoscervi l'equilibrio maturo tra stile e contenuto, la salda e mai meccanica o forzata padronanza della forma poetica, l'assenza totale di ogni retorica, la conduzione con polso sicuro e fermo dei molti temi affrontati. Mi piace non poco riconoscere in Mi sta a cuore la trasparenza dell'aria il risultato di un impegno diuturno e serio, la ricerca costante di una dizione senza sbavature e mai affrettata, l'evidenza di un'arte che, ribadisco, secondo il più alto insegnamento dei Greci (sia antichi che moderni) attraverso la fucina della lingua (qui quella italiana, cui Rosa rende altissimo onore) attraversa lo stare al mondo di chi col mondo si rapporta proprio tramite la parola.
Antonio Devicienti